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giovedì 20 dicembre 2012

L'uomo dell'anno e il declino dello W.A.S.P.


Nell'attribuire il premio di persona dell'anno a Barack Obama, il settimanale Time riassume le ragioni che hanno reso storica la sua rielezione, forse ancor più della sua elezione nel 2008, avvenuta in maniera che avrebbe potuto rivelarsi puramente accidentale, durante il dramma di una crisi economica senza precedenti. Oltre che il primo Presidente nero nella storia degli Stati Uniti, Obama può ormai essere definito il simbolo delle inesorabili trasformazioni in corso nella società americana. La sua maggioranza elettorale è composta essenzialmente dai gruppi sociali e etnici in rapida ascesa a scapito del tradizionale 'uomo bianco WASP': minoranze, in particolare ispanici, gay, donne con una formazione superiore, giovani. Obama, pur tra molte deludenti timidezze, ha saputo fornire posizioni progressiste (in materia di contraccezione, di immigrazione, diritti sociali) a una società che nel suo insieme ormai le richiede a gran voce, riuscendo così a confermare il blocco di potere del 2008 che i repubblicani speravano transitorio. La sua rielezione potrebbe al contrario suggellare un riassetto della politica americana destinato a durare nel tempo, chiudendo definitivamente il ciclo del liberalismo sfrenato poco attento ai meno abbienti che si era aperto con Ronald Reagan ben 30 anni fa. Con Time, Obama commenta che l'America "è diventata piano piano un paese più vario e tollerante, che accoglie in sé la differenza e rispetta coloro che sono diversi da noi. E' uno sviluppo profondamente positivo, e uno dei punti di forza della nazione". Non ci resta che sperare che, così come l'edonistico egoismo reaganiano degli anni '80, anche la rivoluzione solidaristica obamaniana che si prepara sia contagiosa, arrivando a lambire le sponde dell'Europa impaurita e ripiegata su se stessa.

Ultima settimana di campagna, Nashua, New Hampshire, 27 ottobre 2012. Discorso di Obama in presenza dell'Imbucato tra la folla

George McGovern, 1922-2012: elogio di un perdente visionario

Tra gli americani scomparsi e celebrati dalla stampa nel 2012, figura George McGovern, sfidante democratico e grande sconfitto contro Richard Nixon alle elezioni del 1972, morto a 90 anni il 21 ottobre, alla vigilia della rielezione di Obama,. L'Imbucato, a cui l'ex-senatore era colpevolmente poco meno che ignoto, ha frugato nelle informazioni sulla sua vita e nei filmati d'epoca ed ha scoperto un personaggio integro e visionario, che ha cercato di accompagnare, sebbene con scarso successo, dei mutamenti sociali che sono venuti a maturazione solo quarant'anni più tardi. Eccovene un breve profilo.

McGovern, nativo del midwest, era figlio della generazione formatasi durante la Grande Depressione e forgiata dal secondo conflitto mondiale. Da quelle esperienze McGovern aveva ricavato un radicato senso del sociale e il rifiuto della guerra, che investì nella  sua militanza nell'ala più progressista del partito democratico. Da senatore, l’opposizione netta alla guerra in Vietnam fu il suo marchio di fabbrica per più di un decennio: nel 1970, durante la Presidenza di Richard Nixon, allora in carica da due anni e continuatore della catastrofe bellica in Vietnam malgrado le promesse elettorali in senso contrario, McGovern non riuscì a far approvare la mozione parlamentare che vi avrebbe posto fine. Le sue parole nel presentarla scossero tuttavia gli animi nel paese: "Ogni senatore in quest'aula è in parte responsabile della morte prematura di 50mila giovani americani", apostrofò i suoi colleghi, "Quest'aula emana odore di sangue".
Warhol utilizzò la faccia poco raccomandabile di Nixon per invitare a votare McGovern
(opera esposta attualmente nella mostra "Sinister Pop", sino al 31 marzo al Whitney Museum)
Due anni più tardi, il suo discorso alla Convention repubblicana che lo elesse sfidante di Nixon alle elezioni fu uno spettacolare atto di accusa contro il Presidente e le sue emergenti tendenze antidemocratiche, un atto di dolore per il sangue versato inutilmente da ambo le parti, un rifiuto della guerra e una promessa di cessarla immediatamente ("Porrò fine all'insensato bombardamento dell'Indocina il giorno stesso in cui presterò giuramento"). Ad ascoltarlo oggi, quel discorso visionario, sincero ed ispirato mette ancora la pelle d’oca.
Peccato che all'epoca non lo vide nessuno: McGovern era riuscito ad imporsi contro i capibastone del partito democratico dopo giorni di laceranti dibattiti e divisioni interne che si erano conclusi solo a notte fonda. Il suo discorso di investiture andò in onda alle 3 del mattino! Alle elezioni di novembre le divisioni del partito gli costarono caro: durante le primarie McGovern si era guadagnato il sostegno del nuovo elettorato democratico emerso negli anni della contestazione, composto di giovani, minoranze, donne e gay, contestatori e pacifisti, militanti dei diritti civili e sostenitori delle uguali opportunità. Nixon non ebbe difficoltà a metter in guardia l'elettorato bianco, moderato e benpensante allora largamente dominante contro McGovern, che bollò come tutto 'amnistia, aborto e droga'. A contribuire alla sconfitta elettorale fu anche la scelta del Vice Presidente, fatta in tutta fretta, e dopo quindici giorni rinnegata quando emersero i trascorsi clinici per malattia mentale del Candidato. McGovern andò incontro alla più catastrofica sconfitta elettorale della storia (Nixon si affermò in 49 Stati su 50), e finì per essere sbrigativamente liquidato dal partito democratico come lo spauracchio di una sconfitta annunciata, simbolo dell'impossibile affermazione della sinistra radicale nel paese. Eppure, tutti oggi riconoscono che se George McGovern avesse vinto le elezioni, l'America sarebbe uscita con qualche anno di anticipo da un conflitto sanguinoso  e impresentabile con un risparmio di molte migliaia di vite umane, e il paese si sarebbe risparmiato il dramma del Watergate e di un Presidente dimissionario. Se si potesse rifare la storia, gli americani oggi eleggerebbero McGovern a grande maggioranza. Una bella consolazione per un uomo che aveva capito  molte cose, ma troppo in anticipo sui tempi.

sabato 15 dicembre 2012

L'America che non smette di piangere (2)

Negli ultimi sei mesi la lista delle vittime della Carneficina si è allungata, uccise a colpi di armi da guerra da folli scatenati, mentre guardavano un film d'azione o coloravano un album con i pennarelli. Sono circa quaranta, e in questo computo approssimato per difetto rientrano soltanto le vittime della strage di luglio in Colorado e quella di ieri in Connecticut, che appartengono di diritto alla categoria di quelle che balzano in testa alle classifiche pluriennali del numero di vittime, attirano orde di inviati speciali, trovano posto nei titoli di testa per almeno una settimana, e generano un dolente e nobile momento di cordoglio nazionale nonché ipocriti discorsi pubblici intrisi di commozione. Le altre incursioni col fucile mitragliatore il cui numero di vittime è inferiore a cinque si susseguono stancamente a ritmo quasi settimanale nei diversi angoli del paese, senza che nessuno trovi il tempo di curarsene. Per chi crede in una società in cui l'unica a prevalere è la legge del più forte, sono un congruo prezzo da pagare da parte di chi non ha pensato di andare a fare la spesa con la pistola per difendersi da eventuali attacchi. E c'è anche chi sostiene che per evitare le vittime nelle aule scolastiche basterebbe permettere a professori e bidelli di difendersi andandoci armati. Ma quel che lascia più colpiti è la colpevole inerzia della classe politica cosiddetta responsabile, che di fronte al libero approvvigionarsi in armi degli americani, compresi i pazzi conclamati e gli squilibrati mentali, non trova di meglio che lasciar correre, in omaggio a principi sedicenti liberali, per poi commuoversi in diretta televisiva davanti alle vittime di questa insensatezza. Questa volta non ho avuto cuore di seguire il Giornalista, inevitabilmente inviato sui luoghi del crimine, ad appena 100 chilometri da New York. Non ce l'avrei fatta a far finta di svolgere un mestiere non mio, a seguirlo nell'ingrato compito di raccogliere testimonianze di chi c'era, di chi ha magari sentito risuonare i colpi nei corridoi della scuola, e ha capito, e ha cercato di proteggere i bambini inermi, e di nasconderli a quella follia inspiegabile a noi -figuriamoci a loro. Quei poveri 700 spaventati bambini tra i 5 e i 10 anni; 20 dei quali, di prima elementare, sono stati ammazzati uno a uno.
Quindi ho acceso la TV, e ho ascoltato le parole del Presidente. Visibilmente commosso, anzi quasi in lacrime, non articolava bene mentre leggeva degli appunti da un foglio (per una volta non da un gobbo elettronico). Come già in passato, diceva di parlare da padre, non da Presidente. E ad uso di chi ancora osa sperare che all'efficace oratoria funebre possa un giorno seguire anche qualche presidenziale azione politica, ha detto le seguenti venti parole: "Occorre che ci uniamo tutti, indipendentemente da valutazioni di parte, per portare avanti  delle azioni significative e prevenire tragedie simili a questa". Freni il suo impeto e stia attento a non sbilanciarsi troppo, signor Presidente. La questione è della massima delicatezza.

giovedì 29 novembre 2012

America, un anno dopo...

 November 2011- November 2012

...Un commosso ricordo a fine campagna

La vittoria di Obama, sancita dalla NBC con un anticipo di qualche minuto sulla rivale CNN, ha fatto calare definitivamente il sipario su una campagna elettorale lunga più di dodici mesi. Un anno di democrazia-spettacolo a base di seri dibattiti sui destini della nazione, spese insensate da parte dei candidati e sovraeccitazione mediatica. Tempo appena qualche giorno, e anche il ruscello residuo delle analisi dei risultati e dei flussi elettorali si è inaridito. Nel silenzio improvviso, mentre gli operai smontavano le scenografie, i corrispondenti esteri fissavano il vuoto attoniti, già rimpiangendo questa epopea adrenalinica sovraccarica di significati storici cui forse mai più avranno l'occasione di partecipare.


I due principali protagonisti hanno accolto la Fine delle Operazioni con un aplomb impensabile dalle nostre parti. Dopo aver festeggiato la vittoria con un discorso dall'afflato retorico-epico che ci riserva ormai quasi meccanicamente per i momenti importanti, Obama si è concesso appena il lusso di versare qualche lacrimuccia davanti ai volontari che gli hanno facilitato la rielezione, prima di riguadagnare Washington. Riapparso una settimana più tardi nella prima conferenza stampa da Presidente-rieletto, ha rispolverato i consueti abiti professorali e discusso di deficit di bilancio, senza far parola di una vittoria che molti considerano storica. Di Romney non si è più sentito parlare. La satira lo dipinge affranto, nella sua magione del New England più imponente della Casa Bianca, intento ad annegare nel latte il suo scoramento (da buon mormone, Mitt è astemio dalla nascita). Quel che si sa è che, reduce da una sconfitta che potrebbe segnare le sorti del suo partito per una generazione, ben più netta di quanto si aspettassero i sondaggisti seri e a maggior ragione lui, che, ci dicono, nella vittoria ha creduto sino all'ultimo, ha accettato di aver perso con dignità, con un discorso breve in cui abbondavano gli auguri al vincitore. Ha poi voltato le spalle a una sala ormai semivuota ed ed è tornato a casa con la sua macchina, non potendo più contare sulla protezione dei servizi segreti. Come nella migliore tradizione della politica americana è uscito dalla porta di servizio per avviarsi all'oblio della vita pubblica.

Romney e l'ombra di Kennedy, Nashua, novembre 2011
Sul piano personale, l'autore di questo blog si strugge al ricordo del primo incontro con Mitt, in un bigio pomeriggio del novembre 2011 che avrebbe dato inizio alla loro repentina carriera, rispettivamente di Imbucato e Candidato alla Casa Bianca. Nella piazza del Municipio di Nashua, nel minuscolo New Hampshire, oscura località che con scarso merito proprio sarebbe assurta agli onori della campagna in quanto città principale di uno degli 8 Stati contesi, l'incerto Mitt concionava un manipolo raccogliticcio all'ombra di un busto del conterraneo John Kennedy. Fu l'inizio di una lunga cavalcata comune attraverso gli alti e i bassi delle primarie;  il trionfo alla seppur sgangherata Convention a Tampa; la nostra lunga estate calda, popolata di gaffe che hanno scolpito nell'opinione pubblica l'immagine di un distratto milionario lontano anni luce dalle persone comuni; e infine le più felici prestazioni durante i dibattiti con Obama, con le quali Romney ha nutrito la fugace illusione di poter imprimere una sterzata alla campagna.

Se così non è stato, l'Imbucato, che ha seguito le vicissitudini di Romney per meglio convincersi dell'ineluttabilità della  vittoria del rivale, non può che rallegrarsi. Resta il rispetto per un Candidato in buona fede ma irrimediabilmente troppo ricco e troppo poco consapevole degli oneri che ciò dovrebbe comportare per imporsi in una società complessa e impoverita come quella americana odierna. Nel congedarci definitivamente da lui vogliamo però dimostrarvi che anche Mitt ha un cuore.  In questa foto del 1968, all'epoca in cui cercava di far proseliti in Francia per la chiesa mormone, il giovane Mitt si struggeva d'amore per Ann, che avrebbe sposato l'anno dopo. A quasi cinquant'anni dal primo incontro i due formano ancora una bella coppia di ricchi sessantenni visibilmente innamorati, in una maniera graziosa e un po' démodé (mentre gli Obama, a onor del vero, a miei occhi esprimono l'immagine di una di quelle coppie pubbliche il cui nutrimento deriva anche dall'esercizio del potere).
Coraggio, Mitt, l'importante è che ci sia l'amore...

martedì 27 novembre 2012

Da Benjamin ai nostri giorni: la prevalenza del Tacchino

È tradizione che a fine novembre gli americani si accalchino nei supermercati per aggiudicarsi la loro annuale vittima sacrificale da condividere con amici e parenti il giorno del Ringraziamento. Nella maggior parte dei casi la scelta cade sul tacchino, pennuto autoctono del Nuovo Continente che occupa un posto talmente importante nell'iconografia statunitense che su pressione di Benjamin Franklin per poco non fu scelto come simbolo del paese al posto dell'aquila di mare. All'epoca in cui i puritani del Mayflower nel 1621 ne divisero le carni con la tribù del capo indiano Massasoit dando inizio alla tradizione del Ringraziamento milioni di tacchini scorrazzavano liberi per le foresteE anche oggi che sono sfornati da impietose catene di montaggio avicole in imballaggi atti a preservarne le caratteristiche organolettiche, gli americani continuano ad apprezzarli. Solo per il giorno del Ringraziamento, si calcola che ogni anno ne vengano macellati 45 milioni. Tuttavia, due all'anno riescono a salvarsi, grazie al Potere di Grazia del Tacchino informalmente attribuito al Presidente degli Stati Uniti. Scelti ogni anno sulla base di una accurata selezione dalla lobby dei produttori di tacchini, i due fortunati esemplari acquistano il diritto di passare una notte nella suite di un prestigioso albergo della capitale per essere poi ammessi al cospetto del Presidente, che durante una solenne cerimonia pubblica impartisce loro il diritto di morire di morte naturale in un lussuoso allevamento in Virginia. Se questo rituale farsesco sembra a prima vista coniugare le caratteristiche tutte americane dell'amore per lo spettacolo e del radicato attaccamento alle tradizioni, il Washington Post non ne è convinto, e in un gustoso articolo reclama l'abolizione dell'incongrua buffonata, che distoglie l'Uomo più potente della Terra da occupazioni più serie, squalificandolo agli occhi della comunità internazionale. Quel che più preoccupa in questa faccenda è che a istituzionalizzare la pratica della Grazia non sia stato un venerando Padre della Patria ma bensì il meno rispettabile George W. Bush. Un esempio delle tante ingombranti eredità del "conservatore compassionevole" di cui Obama potrebbe volerci sbarazzare nel secondo mandato. Ma se dovesse decidere di farlo, gli consiglieremmo di cominciare chiudendo la prigione di Guantanamo. 
Obama impartisce la grazia e sembra pure prenderci gusto. Un po' meno le figlie adolescenti, 
che sembrano terrorizzate al pensiero di doversi sorbire altre quattro 
pagliacciate simili durante il prossimo mandato del padre  (la più grande avrà 18 anni nel 2016, altro che tacchini!)
Manco a dirlo, il nostro, di pennuto, non disponendo delle qualifiche necessarie per salvarsi, è finito dritto in forno, per emergerne tondo, miracolosamente dorato, e imbottito di quel saporito ripieno a base di interiora, pane, prugne e frutta secca che, insieme con il purée di patate e la salsa a base di mirtilli, è il vero protagonista di ogni Thanksgiving che si rispetti. Perché la carne di questo gigantesco pollo il cui peso medio al dettaglio è di 13 chili (ne pesava appena 8 nel 1940!) che cuoce in forno per cinque ore è di norma poco al di sopra dei comuni criteri di commestibilità. Asciutto e coriaceo, viene appena sbocconcellato tra generici gridolini di estasi da parte dei commensali, che già saturi di vino e antipasti hanno cura di affogare ogni minuscolo boccone nella salsa ai mirtilli per consentirne un transito meno accidentato attraverso l'esofago. E chi ha la sventura di ritrovarsi in casa i sedicenti "resti" del tacchino sa che dovrà continuare a ingoiarne in tutte le fogge per l'intera settimana successiva. Vera festa per il palato, Thanksgiving è una mannaia che cade con la stessa inesorabile ineluttabilità di Natale e Capodanno, con i quali condivide anche i grattacapi organizzativi e le grandi attese potenzialmente frustrate. In aggiunta, dura quanto un matrimonio nel sud d'Italia: dal primissimo pomeriggio sino a sfinimento a notte fonda. Eppure, l'amore con cui i nostri amici americani lo preparano, facendoci l'onore di includerci ormai da quattro anni nella loro cerchia più ristretta, ha finito per conquistarci. Ogni anno ci facciamo un po' belli, ci presentiamo con lo champagne in una mano e i pasticcini alla crema di zucca nell'altra, abbracciamo chi non abbiamo visto da un anno con il piacere di ritrovarlo, e ci uniamo alla festa. E quando viene il nostro turno, esprimiamo il nostro Ringraziamento (al Dio dei Puritani, del Capo indiano Massaoit o della Lobby del tacchino?) di essere sì lontani da casa, ma anche qui in America circondati dall'affetto di chi ci vuole bene. E di sentirci, in fondo, felici. Potere delle tradizioni.
La Prevalenza del Tacchino

sabato 24 novembre 2012

Tempi difficili

Tempi difficili, per New York. Tempi difficili per l'Imbucato. 
Da settimane si aggira per una città ancora intenta a leccarsi le ferite dell'Uragano Sandy. Le lunghe code di tassisti alle pompe per accaparrarsi il carburante razionato; la ripresa a rilento delle attività commerciali nel sud di Manhattan e la scomparsa di quelle che non ce l'hanno fatta a risollevarsi; i disagi a ripetizione nei trasporti pubblici che si sono protratti per settimane e non sono ancora completamente riassorbiti; i racconti attoniti di chi non aveva come noi la fortuna di abitare a nord della 14ma strada e si è trovato per una settimana proiettato nel Medioevo delle candele, delle strade oscure e delle toilette senz'acqua; le migliaia di senzatetto ancora abbandonati a se stessi in tanti quartieri borghesi sul mare, a un tiro di schioppo da Manhattan. Mentre la flebile voce di chi abita nei casermoni popolari delle località più periferiche e meno rilucenti ancora senza luce e acqua a settimane dall'inondazione non riesce a farsi sentire. Tutto contribuisce a creare l'impressione che i fragili  equilibri ecologici e socio-economici di questa ricca megalopoli-vetrina che tuttora rivendica il suo ruolo di capitale mondiale abbiano retto a malapena a un'onda anomala di quattro metri. E che l'eroismo stancamente accampato dai suoi abitanti e la fierezza della lotta a mani nude contro gli elementi non saranno in futuro sufficienti a salvarla, in assenza di interventi sulle sue infrastrutture neglette e affaticate, che peraltro ben pochi sembrano reclamare. Tempi difficili, per New York. Che riprese le quotidiane occupazioni, ha faticosamente riacceso le sue mille luci e cercato di archiviare la tempesta. In attesa della prossima.

L'Imbucato errabondo per le strade dell'East Side alla vigilia del Grande Shopping d'autunno ha colto
Le Mille Luci di  New York dalla prospettiva affascinante e poco battuta
della teleferica che costeggiando l'Ed Koch Bridge collega la 60ma strada con Roosevelt Island.

martedì 6 novembre 2012

Chicago, Illinois, 10.18 pm: Four More Years!!


Stevie Wonder, 1970, etichetta Tamla Motown: Signed, sealed, delivered, I'm Yours, prima nomination ai Grammy Awards per Wonder. È la canzone ufficiale della campagna di Barack Obama 2012.


lunedì 5 novembre 2012

Non ci resta che incrociare le dita.


Allora, "chi le vince, le elezioni?" chiedono inquieti amici/lettori europei.
Riuscirà l'idolatrato Presidente progressista a rintuzzare i temibili attacchi portatigli dall'aborrito, insensibile plutocrate e a restare ancora alla Casa Bianca per quattro anni? L'Imbucato non può che affidarsi ai sondaggi, che a poche ore dall'apertura dei seggi (espressione un po' desueta negli Stati Uniti, dove una percentuale non trascurabile degli aventi diritto ha in realtà già votato) considerano probabile una vittoria di Obama. Risicata, probabilmente, in termini proporzionali a livello nazionale, ma relativamente più netta per quanto riguarda il numero di Stati, e soprattutto di Grandi Elettori, che dovrebbe riuscire ad aggiudicarsi.

E se volete sapere il perché di questa affermazione annunciata - nonostante una campagna poco passionale, tecnicistica e talora esclusivamente negativa; nonostante un’economia che ha mostrato timidi segni di ripresa (specie, per sua fortuna, in alcuni degli Stati in bilico) ma che condanna tuttora quasi l’8% degli americani alla disoccupazione e molti milioni alla sottocupazione; nonostante una prestazione disastrosa e rinunciataria del primo dibattito televisivo che ha rischiato di costargli molto cara- forse bisogna chiederlo a Sandy. L’uragano. Distinguendosi dal suo predecessore, che nel 2005 aveva osservato New Orleans seppellita dalle acque in diretta TV dal suo luogo di villeggiatura in Texas, Obama ha prontamente sospeso la campagna elettorale per fare ritorno a Washington. E con il fiuto politico che non fa difetto né a lui né ai suoi consiglieri, ha passato due giorni nei luoghi del disastro a svolgere il ruolo super partes di padre della nazione dolente. Ha stretto mani, abbracciato anziane signore che avevano perso tutto, promesso aiuti, sempre dando abilmente mostra di volersi proteggere dalle telecamere al fine di non politicizzare l’evento. In TV per qualche giorno si è parlato poco di elezioni, e Mitt Romney ha dovuto mostrarsi ugualmente caritatevole: ha sospeso la campagna a sua volta per darsi suo malgrado alle riunioni di raccolta doni. E a causa dell’uragano, anche uno dei suoi più stretti alleati, Chris Christie, il pachidermico governatore repubblicano del New Jersey (lo stato più colpito dall’uragano), si è defilato: Autore sino a ieri di attacchi di estrema virulenza ed efficacia contro il Presidente, tra le rovine di Sandy Christie deve averne scoperto le doti nascoste, dando luogo ad abbracci, lodi e segni di stima e di apprezzamento in diretta televisiva che Romney deve avere fatto fatica a ingoiare. Per il 68% degli americani il comportamento di Obama in occasione dell’uragano Sandy è stato esemplare. E non è escluso che questo 'evento straordinario del mese di ottobre', come lo definiscono gli statistici, abbia contribuito a un miglioramento dei sondaggi. Nella maggior parte degli otto Stati in bilico Obama viene segnalato in vantaggio, sebbene di poco, o in parità. Il guru delle statistiche, il genietto in erba Nate Silver, scritturato dal New York Times per propinarci un complesso, dettagliatissimo e spesso incomprensibile pronostico quotidiano, attribuisce ad una vittoria di Romney poco più del 13% di probabilità. 

Incapace di aggiungere una parola di più (non ne avrei i titoli: statistica è l'unico esame a scienze politiche che ho dovuto dare due volte, senza peraltro imparare alcunché) mi fermo qua. Per scaramanzia, non vi riveleremo la località misteriosa dalla quale abbiamo scelto di seguire i risultati. Vi basti sapere che è la capitale dell'Illinois, che contende a New York la denominazione di "Gotham City", che vi fa già un freddo cane e che è la metropoli di provenienza di uno dei due Candidati. Sperando di aver fatto la scelta giusta...


PS Nel nostro albergo da 2000 stanze in cui sfaccendati viaggiatori d'affari seguono sui grandi schermi di uno degli innumerevoli ristoranti un'appassionante match di football americano in cui Philadelphia viene schiacciata da un'altra squadra non identificata i cui giocatori portano delle casacche nere, mi raggiungerà il Giornalista. Poiché la veneranda rivista europea per la quale lavora andrà in stampa martedì a  proclamazione del vincitore appena annunciata (nella migliore delle ipotesi), durante il week-end ha avuto il piacere di scrivere tre articoli: uno che esalta la vittoria di Obama, uno quella di Romney, e un terzo che spiega le ragioni del pareggio. Scegliete il vostro risultato ideale. E se volete sapere come sarebbe potuta andare, scrivete all'Imbucato.

Ed ecco i due contendenti che lanciano il loro ultimo appello agli elettori: Romney dal New Hampshire (minuscolo Stato della East Coast confinante col suo Massachusetts, in cui i sondaggi li danno in parità) e Obama dall'Iowa (piccolo Stato del midwest in cui Obama è dato vincente). Noi siamo al calduccio della nostra stanza. Sullo sfondo, gli splendidi grattacieli della metropoli misteriosa.


mercoledì 31 ottobre 2012

Happy Halloween tra le rovine


L'uragano del secolo ci ha appena voltato le spalle lasciandosi dietro distruzione e disservizi; il sud di Manhattan è privo di elettricità e di acqua nei piani alti, i semafori sono spenti e i negozi chiusi; i pochi ristoranti aperti vanno avanti a lume di candela. In tutta la città la metro non funziona, gli aeroporti riapriranno a singhiozzo tra oggi e domani, i tunnel sono ancora allagati e i pendolari si incolonnano in lunghe file di macchie per raggiungere Manhattan attraverso i ponti appena riaperti. Mentre buona parte di Manhattan vive in una situazione  di apocalisse post atomica, nei quartieri alti si fa come se nulla fosse. Halloween, che i nostri vicini preparano con dedizione da parecchie settimane, procede senza perdere un colpo. Le nostre speranze che il vento a 150 all'ora spazzasse via per sempre le funeree decorazioni che da settimane ornano le abitazioni sono andate deluse. Chilometri interi di ragnatele di garza e cotone idrofilo sono state ripristinate con efficienza ed encomiabile abnegazione sulle ringhiere  e gli ingressi delle case. Ed eserciti di scheletri, vampiri e signore della morte, streghe e zombie sono tornati ad aggrapparsi alle finestre e alle balaustre. La festa di Halloween del quartiere, a cui siamo stati gentilmente invitati ("Fate strillare con Halloween la vostra casa") è cominciata da poco. Eserciti di bambini vestiti da fantasmi hanno invaso la strada e ci cingono d'assedio. Asserragliati in casa sperando che non ci vengano a cercare, vi bisbigliamo un sommesso "Happy Halloween" tra le rovine.