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giovedì 20 dicembre 2012

L'uomo dell'anno e il declino dello W.A.S.P.


Nell'attribuire il premio di persona dell'anno a Barack Obama, il settimanale Time riassume le ragioni che hanno reso storica la sua rielezione, forse ancor più della sua elezione nel 2008, avvenuta in maniera che avrebbe potuto rivelarsi puramente accidentale, durante il dramma di una crisi economica senza precedenti. Oltre che il primo Presidente nero nella storia degli Stati Uniti, Obama può ormai essere definito il simbolo delle inesorabili trasformazioni in corso nella società americana. La sua maggioranza elettorale è composta essenzialmente dai gruppi sociali e etnici in rapida ascesa a scapito del tradizionale 'uomo bianco WASP': minoranze, in particolare ispanici, gay, donne con una formazione superiore, giovani. Obama, pur tra molte deludenti timidezze, ha saputo fornire posizioni progressiste (in materia di contraccezione, di immigrazione, diritti sociali) a una società che nel suo insieme ormai le richiede a gran voce, riuscendo così a confermare il blocco di potere del 2008 che i repubblicani speravano transitorio. La sua rielezione potrebbe al contrario suggellare un riassetto della politica americana destinato a durare nel tempo, chiudendo definitivamente il ciclo del liberalismo sfrenato poco attento ai meno abbienti che si era aperto con Ronald Reagan ben 30 anni fa. Con Time, Obama commenta che l'America "è diventata piano piano un paese più vario e tollerante, che accoglie in sé la differenza e rispetta coloro che sono diversi da noi. E' uno sviluppo profondamente positivo, e uno dei punti di forza della nazione". Non ci resta che sperare che, così come l'edonistico egoismo reaganiano degli anni '80, anche la rivoluzione solidaristica obamaniana che si prepara sia contagiosa, arrivando a lambire le sponde dell'Europa impaurita e ripiegata su se stessa.

Ultima settimana di campagna, Nashua, New Hampshire, 27 ottobre 2012. Discorso di Obama in presenza dell'Imbucato tra la folla

George McGovern, 1922-2012: elogio di un perdente visionario

Tra gli americani scomparsi e celebrati dalla stampa nel 2012, figura George McGovern, sfidante democratico e grande sconfitto contro Richard Nixon alle elezioni del 1972, morto a 90 anni il 21 ottobre, alla vigilia della rielezione di Obama,. L'Imbucato, a cui l'ex-senatore era colpevolmente poco meno che ignoto, ha frugato nelle informazioni sulla sua vita e nei filmati d'epoca ed ha scoperto un personaggio integro e visionario, che ha cercato di accompagnare, sebbene con scarso successo, dei mutamenti sociali che sono venuti a maturazione solo quarant'anni più tardi. Eccovene un breve profilo.

McGovern, nativo del midwest, era figlio della generazione formatasi durante la Grande Depressione e forgiata dal secondo conflitto mondiale. Da quelle esperienze McGovern aveva ricavato un radicato senso del sociale e il rifiuto della guerra, che investì nella  sua militanza nell'ala più progressista del partito democratico. Da senatore, l’opposizione netta alla guerra in Vietnam fu il suo marchio di fabbrica per più di un decennio: nel 1970, durante la Presidenza di Richard Nixon, allora in carica da due anni e continuatore della catastrofe bellica in Vietnam malgrado le promesse elettorali in senso contrario, McGovern non riuscì a far approvare la mozione parlamentare che vi avrebbe posto fine. Le sue parole nel presentarla scossero tuttavia gli animi nel paese: "Ogni senatore in quest'aula è in parte responsabile della morte prematura di 50mila giovani americani", apostrofò i suoi colleghi, "Quest'aula emana odore di sangue".
Warhol utilizzò la faccia poco raccomandabile di Nixon per invitare a votare McGovern
(opera esposta attualmente nella mostra "Sinister Pop", sino al 31 marzo al Whitney Museum)
Due anni più tardi, il suo discorso alla Convention repubblicana che lo elesse sfidante di Nixon alle elezioni fu uno spettacolare atto di accusa contro il Presidente e le sue emergenti tendenze antidemocratiche, un atto di dolore per il sangue versato inutilmente da ambo le parti, un rifiuto della guerra e una promessa di cessarla immediatamente ("Porrò fine all'insensato bombardamento dell'Indocina il giorno stesso in cui presterò giuramento"). Ad ascoltarlo oggi, quel discorso visionario, sincero ed ispirato mette ancora la pelle d’oca.
Peccato che all'epoca non lo vide nessuno: McGovern era riuscito ad imporsi contro i capibastone del partito democratico dopo giorni di laceranti dibattiti e divisioni interne che si erano conclusi solo a notte fonda. Il suo discorso di investiture andò in onda alle 3 del mattino! Alle elezioni di novembre le divisioni del partito gli costarono caro: durante le primarie McGovern si era guadagnato il sostegno del nuovo elettorato democratico emerso negli anni della contestazione, composto di giovani, minoranze, donne e gay, contestatori e pacifisti, militanti dei diritti civili e sostenitori delle uguali opportunità. Nixon non ebbe difficoltà a metter in guardia l'elettorato bianco, moderato e benpensante allora largamente dominante contro McGovern, che bollò come tutto 'amnistia, aborto e droga'. A contribuire alla sconfitta elettorale fu anche la scelta del Vice Presidente, fatta in tutta fretta, e dopo quindici giorni rinnegata quando emersero i trascorsi clinici per malattia mentale del Candidato. McGovern andò incontro alla più catastrofica sconfitta elettorale della storia (Nixon si affermò in 49 Stati su 50), e finì per essere sbrigativamente liquidato dal partito democratico come lo spauracchio di una sconfitta annunciata, simbolo dell'impossibile affermazione della sinistra radicale nel paese. Eppure, tutti oggi riconoscono che se George McGovern avesse vinto le elezioni, l'America sarebbe uscita con qualche anno di anticipo da un conflitto sanguinoso  e impresentabile con un risparmio di molte migliaia di vite umane, e il paese si sarebbe risparmiato il dramma del Watergate e di un Presidente dimissionario. Se si potesse rifare la storia, gli americani oggi eleggerebbero McGovern a grande maggioranza. Una bella consolazione per un uomo che aveva capito  molte cose, ma troppo in anticipo sui tempi.

sabato 15 dicembre 2012

L'America che non smette di piangere (2)

Negli ultimi sei mesi la lista delle vittime della Carneficina si è allungata, uccise a colpi di armi da guerra da folli scatenati, mentre guardavano un film d'azione o coloravano un album con i pennarelli. Sono circa quaranta, e in questo computo approssimato per difetto rientrano soltanto le vittime della strage di luglio in Colorado e quella di ieri in Connecticut, che appartengono di diritto alla categoria di quelle che balzano in testa alle classifiche pluriennali del numero di vittime, attirano orde di inviati speciali, trovano posto nei titoli di testa per almeno una settimana, e generano un dolente e nobile momento di cordoglio nazionale nonché ipocriti discorsi pubblici intrisi di commozione. Le altre incursioni col fucile mitragliatore il cui numero di vittime è inferiore a cinque si susseguono stancamente a ritmo quasi settimanale nei diversi angoli del paese, senza che nessuno trovi il tempo di curarsene. Per chi crede in una società in cui l'unica a prevalere è la legge del più forte, sono un congruo prezzo da pagare da parte di chi non ha pensato di andare a fare la spesa con la pistola per difendersi da eventuali attacchi. E c'è anche chi sostiene che per evitare le vittime nelle aule scolastiche basterebbe permettere a professori e bidelli di difendersi andandoci armati. Ma quel che lascia più colpiti è la colpevole inerzia della classe politica cosiddetta responsabile, che di fronte al libero approvvigionarsi in armi degli americani, compresi i pazzi conclamati e gli squilibrati mentali, non trova di meglio che lasciar correre, in omaggio a principi sedicenti liberali, per poi commuoversi in diretta televisiva davanti alle vittime di questa insensatezza. Questa volta non ho avuto cuore di seguire il Giornalista, inevitabilmente inviato sui luoghi del crimine, ad appena 100 chilometri da New York. Non ce l'avrei fatta a far finta di svolgere un mestiere non mio, a seguirlo nell'ingrato compito di raccogliere testimonianze di chi c'era, di chi ha magari sentito risuonare i colpi nei corridoi della scuola, e ha capito, e ha cercato di proteggere i bambini inermi, e di nasconderli a quella follia inspiegabile a noi -figuriamoci a loro. Quei poveri 700 spaventati bambini tra i 5 e i 10 anni; 20 dei quali, di prima elementare, sono stati ammazzati uno a uno.
Quindi ho acceso la TV, e ho ascoltato le parole del Presidente. Visibilmente commosso, anzi quasi in lacrime, non articolava bene mentre leggeva degli appunti da un foglio (per una volta non da un gobbo elettronico). Come già in passato, diceva di parlare da padre, non da Presidente. E ad uso di chi ancora osa sperare che all'efficace oratoria funebre possa un giorno seguire anche qualche presidenziale azione politica, ha detto le seguenti venti parole: "Occorre che ci uniamo tutti, indipendentemente da valutazioni di parte, per portare avanti  delle azioni significative e prevenire tragedie simili a questa". Freni il suo impeto e stia attento a non sbilanciarsi troppo, signor Presidente. La questione è della massima delicatezza.