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giovedì 26 luglio 2012

In libreria con Stiglitz: la fine del sogno americano

La libreria Barnes & Noble dell'Upper West Side, a pochi isolati da casa, denota nell'aspetto  polveroso e un po' trascurato la natura ormai inesorabilmente fuori moda del suo business: i libri e i giornali di carta. La concorrenza dei libri elettronici scaricati via Internet ha già fatto innumerevoli vittime negli Stati Uniti, e ha finito per schiantare l'anno scorso l'altra grande catena concorrente, Borders: con lei hanno chiuso i battenti centinaia di librerie affiliate in tutto il paese. Barnes & Noble, fondata a New York nel 1917, cerca come può di adattarsi alla mutate condizioni di mercato, buttandosi nella vendita on-line, e nella commercializzazione del Nook, il tablet/lettore di libri elettronici casereccio (ma molto consigliabile: arriverà presto in Europa) che fa concorrenza al Kindle di Amazon. Oppure, all'opposto, valorizza la presenza sul territorio dei propri punti vendita facendo quel che su Internet non si può fare: dibattiti, presentazioni, book signing

Anche Time si chiede retoricamente
se il sogno americano sia ancora in vita
Il Barnes & Noble vicino a casa si distingue per un nutrito programma di book signing, frequentato massicciamente dalla clientela del quartiere, in prevalenza benestante, ebraica, intellettuale, progressista e non proprio giovanissima. Ieri la libreria faceva fatica a contenere quanti erano accorsi ad ascoltare Joseph Stiglitz, celebre economista, professore a Columbia University -non lontana da qui- e premio nobel per l'economia nel 2001, che presentava il suo ultimo libro, intitolato significativamente "The Price of Inequality". Con il brio dei grandi studiosi prestati alla divulgazione, Stiglitz fornisce autorevoli argomentazioni accademiche a quanti, a partire dal movimento Occupy Wall Street, reclamano maggiore equità sociale e una migliore distribuzione delle risorse. Stiglitz sostiene che la crescente concentrazione della ricchezza nella mani di una ristretta élite -acuitasi nel corso degli ultimi trent'anni- ha progressivamente ridotto le opportunità di mobilità economica e sociale di cui gli Stati Uniti andavano tradizionalmente fieri. Le pratiche egoiste, predatorie e talora al confine con la legalità di un'élite economica prevalentemente finanziaria e della classe politica che con la pratica legislativa l'ha assecondata negli anni hanno contribuito a una redistribuzione delle ricchezze dal basso verso l'alto, impoverendo la classe media (il cui reddito è oggi piombato ai livelli del 1997) e le classi meno abbienti, privando il paese degli investimenti pubblici in infrastrutture, educazione e tecnologia di cui ha drammaticamente bisogno, e di fatto tarpandone il potenziale sviluppo economico. Il bilancio è amaro: l'America non è più la terra delle opportunità e tornerà ad esserlo solo quando contrasterà con decisione l'ineguaglianza, radice dei propri mali sociali ed economici, e tornerà a crescere in maniera collettiva. Il compito non sarebbe impossibile se ci fosse la volontà politica, conclude Stiglitz, cui sembrano però mancare gli argomenti per infondere un po' di ottimismo per il futuro. Il pubblico, che ha seguito la presentazione con partecipazione militante, accompagnandola con commenti e ovazioni, non chiede di più, e si mette pazientemente in fila per ottenere la copia del libro autografata. Stasera torneranno a casa nel tepore accogliente dei loro appartamenti dell'Upper West Side, confortati all'idea di non essere soli a pensare che il paese corre inesorabilmente verso il baratro.

La libreria dell'Imbucato

Languidi pomeriggi di lettura
 A proposito di librerie, quelle che sembrano meglio resistere all'impatto della modernità sono quelle di nicchia e specializzate, specie in libri di seconda mano. Tra queste ultime, l'Imbucato è incappato in un bucolico gioiellino. Si chiama Montague Bookmill e si trova in un luogo imprecisato del Massachusetts occidentale (quello che contrariamente alla parte orientale e costiera, con capitale Boston, è poco preppy e parecchio hippy) tra i monti e le campagne di Amherst, centro accademico di antiche tradizioni sede di cinque college variamente esclusivi. È ospitata in un antico mulino di fine 800 che ti scricchiola sotto i piedi, e arredata con vecchi mobili di modernariato. È il luogo ideale per perdersi tra gli scaffali che sanno di polvere e muffa, e sfogliare pagine ingiallite dal tempo perdendo di tanto in tanto lo sguardo nel fiumiciattolo che scorre impetuoso sotto gli ampi finestroni. E se vi viene fame, il ristorantino rustico affianco gode della stessa splendida vista e propone panini e birre locali. Lo slogan di cui si fregia la libreria, "i libri di cui non hai bisogno in un posto che non riuscirai mai a trovare" dice poco di buono riguardo alle sue chance di sopravvivenza futura. Approfittatene finché siete in tempo, il nuovo avanza inesorabile.
Amherst, West Massachusetts
Amherst, West Massachusetts


Il vecchio mulino

martedì 24 luglio 2012

Da Columbine ad Aurora: l'America che non smette di piangere

Venerdì scorso un ventiquatrenne animato da lucida follia omicida si è travestito come il cattivo dei film di Batman, ha fatto irruzione in un multisala di Aurora, nell'hinterland di Denver, Colorado, e ha fatto fuoco alla cieca sulla folla che lo gremiva, uccidendo dodici persone, per lo più giovanissime, e ferendone alcune decine. Era armato di un fucile automatico da combattimento e altre armi che aveva acquistato in negozi poco lontani da casa, e di 6000 pallottole ordinate su Internet senza alcuna formalità. 

I volti che vedete qui sopra non appartengono alle sue vittime ma ad altre tredici, per lo più altrettanto giovani, assassinate in circostanze simili nell’aprile del 1999 mentre trascorrevano una normale mattinata di studio in una scuola di Columbine, Colorado, che da Aurora dista appena mezz'ora di macchina. Tredici anni fa. Le loro foto ingialliscono ormai sulle tombe, e il loro ricordo viene tenuto vivo dalle lapidi di marmo grigio del memoriale a loro dedicato a poca distanza dalla scuola. Quell’eccidio, intervenuto in un’epoca in cui l’America era forse un po’ più compassionevole e un po’ meno impaurita, aveva scosso le coscienze e generato un dibattito appassionato sulle cause sociali della violenza giovanile. Molte forze politiche, e alcuni genitori di quegli studenti, si erano pronunciate a favore di norme più restrittive sulla vendita di armi e munizioni. Non era poco per un paese in cui un numero variabile ma spesso maggioritario di cittadini considera il libero accesso alle armi un diritto assoluto e inalienabile garantito dal secondo emendamento della Costituzione. Con l’appoggio di Bill Clinton, che la vendita di armi ha sempre voluto regolamentarla e che nel 1994 aveva fatto approvare il divieto di vendita di armi d’assalto, alcune di quelle norme avevano fatto qualche passo avanti al Congresso, per essere poi accantonate senza esito. Nel 2004 l’Amministrazione Bush, che dalla potente lobby americana delle armi si lasciava con piacere influenzare, lasciò decadere anche il divieto del 1994. 
La casa dell'omicida, Paris Street, Aurora, Colorado
Dopo Columbine, più di 125 assassinii di massa si sono susseguiti in più parti del paese, perpetrati per lo più con armi da guerra. Il numero delle vittime innocenti è di molto aumentato, e così l'indifferenza della gente. Una giovane giornalista nata e cresciuta in Colorado, che accanto a me osserva gli artificieri al lavoro nell’appartamento dell’omicida ad Aurora dice che Columbine aveva straziato e sconvolto un’intera comunità, mentre all’eccidio di oggi la gente sembra reagire come se non ci facesse più caso.    
Il capo della polizia

Stampa e multisala

Beninteso, davanti alla tragedia l’America ha messo in moto la consueta oliata macchina della repressione e del cordoglio, mostrando invidiabile efficienza e coesione. Alla conferenza stampa, le autorità si fanno reciproci complimenti per l’efficienza e l’alto livello di cooperazione dimostrati nell'assicurare rapidamente alla giustizia l'assassino e disinnescarne gli ordini esplosivi. Come nei film, il capo della polizia dalla pancia prominente si mostra determinato ma in fondo paterno, l’agente dell’FBI, sguardo d’acciaio e abito che cade male, è preciso e tagliente, mentre il governatore, in maniche di camicia e ben pettinato, cerca maldestramente le parole per far mostra di una commozione che condisce di prosaico pragmatismo politico. Poco lontano, su una spianata che domina il multisala, momentaneamente chiuso, si sono assiepati i giornalisti più celebri delle reti nazionali: una sbuffata di cipria e poi in onda, trafelati, mentre da studio orde di psicanalisti ed esperti legali si interrogano sulla personalità del presunto colpevole di cui nulla sanno, e si chiedono se davvero possa essere definito pazzo. Non lontano dal luogo della carneficina già è apparso un memoriale improvvisato: la gente porta fiori, messaggi, oggetti personali, piange e si abbraccia davanti a decine di fotografi. C’è anche il carrozziere dell’Illinois il cui hobby sin dai tempi di Columbine è di preparare grandi e coreografiche croci bianche per questo tipo di occasioni: una per ogni vittima innocente.
Croci bianche e Multisala


Va in onda il cerimoniale nazionale del dolore, sincero ma un po' consunto, in cui la nazione si stringe fatalista intorno alle sue vittime come se lo fossero di un'ineluttabile catastrofe naturale. Se la prendono tutt'al più con il demoniaco assassino di turno, che questa volta porta i capelli tinti di arancione. Al rito partecipa anche il Presidente. In visita ad Aurora "da padre e marito" Obama si è intrattenuto con le vittime, ha usato le parole giuste per consolare e commuovere, ma non ha detto una sola parola da Presidente, su cosa sarebbe utile fare per meglio proteggere i suoi concittadini da simili atti di violenza. Il giorno dopo la strage il "Wall Street Journal" aveva visto giusto, "Le leggi sul controllo delle armi non cambieranno", decretava, snocciolando dati eloquenti: il 53% degli americani sono contro l'introduzione di un divieto sulla vendita di fucili da combattimento (il 56% era favorevole nel 1996); solo il 26% vieterebbe la detenzione di armi; il 47% ne ha una in casa. In piena campagna elettorale sarebbe vano attendersi un gesto di coraggio politico da parte di candidati che peraltro in passato si sono espressi in favore di leggi più repressive (e Romney da governatore del Massachusetts le aveva persino poste in essere). E sarebbe vano sperare che eventi del genere non si riprodurranno tra qualche mese o un anno. Sarà una nuova tragedia nazionale, in cui a piangere davvero saranno solo le famiglie e gli amici delle vittime. Come sempre, il loro pianto non disturberà la lobby delle armi.

domenica 15 luglio 2012

L'estate dei Candidati: tra comizi, vacanze e paradisi fiscali

Vi ricordate di Mitt Romney? L'avevamo lasciato qualche mese fa alle prese con il più molesto dei suoi avversari, Rick Santorum, prima che questi gettasse la spugna lasciandogli campo libero. Da allora Mitt ha continuato la sua campagna pressoché solitaria per la conquista della nomination repubblicana e si avvia ad essere incoronato sfidante ufficiale di Obama alla Convention di fine agosto in Florida. Nel frattempo, mentre pondera in segreto la scelta del candidato Vice-Presidente (si mormora che l'ex Segretario di Stato di W. Bush, l'afro-americana Condoleezza Rice, sia attualmente tra i favoriti), si è concesso una settimana di vacanza in famiglia in una delle sue residenze, nel Rhode Island a bordo lago. Le foto ce lo mostrano mentre assapora l'ebbrezza della velocità: a bordo del suo potente motoscafo offshore sul quale hanno preso posto nidiate di biondi nipotini, o del suo jet ski rosso fuoco, di cui ha galantemente lasciato i comandi alla moglie Ann, qui in versione predatrice da spiaggia.



A chi lo critica per questa sguaiata esibizione di opulenza in tempi di crisi Romney replica esaltando l'importanza della vita familiare per ogni americano, e ribadendo che la sua futura azione a capo dell'esecutivo sarà volta a creare quei posti di lavoro -e quindi maggiori opportunità di vacanze per tutti- che l'incapacità dell'attuale Presidente ha fatto finora mancare. Poco sembra quindi crucciarsi dei problemi di immagine di cui continua a soffrire, e spera di poter condurre la battaglia contro Obama esclusivamente sul terreno economico, sulla base di quei dati infelici su crescita e disoccupazione che sembrano a priori condannarlo. Una serie di inchieste giornalistiche uscite in queste settimane hanno tuttavia portato acqua al mulino dei suoi avversari. Vi si critica il ruolo di Romney all'epoca in cui la società di consulenze aziendali Bain, di cui era a capo, consigliava e promuoveva la delocalizzazione di aziende americane in vari paesi a basso costo. E vi si si apprendono ulteriori dettagli sul conto in Svizzera (ora chiuso, ma già stigmatizzato dagli avversari repubblicani) e sulla rete di oscure scatole finanziarie nelle Isole Cayman in cui il Candidato avrebbe parcheggiato milioni di dollari di guadagni per, nella migliore delle ipotesi, eludere il fisco americano. Tutti comportamenti leciti sino a prova contraria ma per lo meno sospetti, e quel che è peggio assai poco patriottici per un candidato repubblicano alla Casa Bianca, che gli sono valsi inviti alla trasparenza anche da esponenti della sua parte politica. Lo stesso Wall Street Journal lo accusa di passività di fronte alle accuse, invitandolo a impegnarsi di più e a produrre meno slogan e più programmi alternativi. 
Obama per parte sua non se ne sta con le mani in mano. In chiara difficoltà sul terreno economico ad appena tre mesi e mezzo dalle elezioni, cerca di screditare il suo avversario sul piano personale. Mentre questo si baloccava sul lago, il Presidente annullava le previste vacanze a Martha's Vineyard, ritrovo molto chic dell'establishment liberal di stampo kennedyano in cui le aveva peraltro trascorse nelle tre estati precedenti, per lanciarsi in un tour in bus lungo le strade di Pennsylvania, Ohio e Virginia. Con l'obiettivo di recuperare il contatto con le folle che l'avevano portato alla Casa Bianca nel 2008, e contrapporre la propria immagine di uomo del popolo  a quella distaccata e godereccia del milionario Romney.  E negli Stati in cui l'elettorato e più indeciso ha rovesciato contro il suo avversario 25 milioni di dollari di spot pubblicitari negativi che lo dipingono come un disinvolto speculatore che manda i capitali all'estero mentre si ammanta di valori patriottici davanti alle folle (il video qui sotto, 30 secondi, è il più sintetico e efficace in materia). 


Lo scontro tra i due non è ancora formalmente cominciato, ma già se ne scorgono le linee guida: fallimento in campo economico contro inadeguatezza morale e caratteriale. Scopriremo durante la campagna se la maggioranza degli elettori consideri Obama l'unico responsabile della stagnazione economica attuale e se la ricchezza ostentata e i comportamenti fiscali poco ortodossi rappresentino davvero un handicap per Romney. Anche se, a pensarci bene, quando mai si è visto che in una matura democrazia occidentale un plutocrate titolare di conti cifrati alle Cayman estensore di un programma di più vacanze e meno governo venisse eletto alla più alta carica del potere esecutivo? 


E a proposito di filmini delle vacanze, l'Imbucato, nell'impossibilità materiale di procurarsi una villa sul lago e ostile per ragioni culturali e ideologiche ai jet ski, volendo nondimeno seguire le orme di Mitt ha dovuto ripiegare su una piscina di modeste dimensioni imprestatagli, e su una compagna di giochi acquatici ahimé assai meno seducente di Ann. Si chiama Jane, e sa approfittare della piscina senza mai bagnarsi, sgambettando di materassino in materassino. Osservate come lascia cadere la palla con nonchalance, in attesa che le venga lanciata di nuovo.


mercoledì 11 luglio 2012

I Musei Celebri: gioie, dolori e i consigli dell'Imbucato

Il turista coscienzioso che si accinga alla visita della Grande Mela si troverà inevitabilmente di fronte a scelte dolorosissime. Fiaccato dal jetlag, in piedi ogni giorno dalle prime ore del mattino, si batterà come un leone  per far rientrare nei sei-sette giorni a sua disposizione il più alto numero di edifici, luoghi storici o simbolici, ristoranti, teatri di Broadway o jazz club, quartieri classici o alternativi, visite guidate in bus o in battello, negozi unici o imperdibili, acquisti in proprio o su commissione. Ben sapendo che il vero dilemma si porrà alla fine, e riguarderà i musei. 
Tra di essi, tre colossi si profilano puntualmente all'orizzonte come ombre particolarmente lunghe e fosche: il Museum of Modern Art (MOMA), il Guggenheim, il Metropolitan: impegnativi, ma talmente classici e carichi di prestigio e di fama mondiale che non sarebbe di buon gusto rinunciarvi. I numerosi e graditissimi ospiti che ci hanno fatto visita in primavera hanno optato per l'uno o per l'altro; con spiccato spirito di abnegazione li hanno talora visitati al galoppo tutti e tre; in qualche caso non ne hanno visto nessuno, contorcendosi tuttavia nel rimorso le settimane seguenti. Per tutti, il consiglio personale dispensato dall'Imbucato è riassumibile come segue: 1) Il Guggenheim è imperdibile: è un tale prodigioso, intramontabile gioiello architettonico che andrebbe visto anche se non fosse pieno di capolavori, e 2) Il dispendioso MOMA, affogato tra i lugubri grattacieli di Midtown, è evitabile a meno di mostre temporanee irrinunciabili (che sono però frequenti). L'innegabile concentrazione di capolavori al suo interno non riesce a far passare in secondo piano la pretenziosa struttura di recente concezione già inadatta all'assalto di immense folle vocianti, nonché la fastidiosa insistenza su ristoranti di lusso e paccottiglia di design a caro prezzo che ne fanno ai nostri occhi un'icona di museo-supermarket dei tempi moderni.
MOMA, Architect Y. Taniguchi 2004. BOCCIATO!
S. Guggenheim Museum, Architect F. Lloyd Wright, 1959. PROMOSSO!
Metropolitan Museum: il Museo-enciclopedia
3) Per quanto riguarda il Metropolitan Museum, o Met, la questione si fa più complicata. Nato a fine ottocento con più di un secolo di ritardo rispetto al Louvre o al British Museum, il Met ha saputo eguagliarli entrambi in materia di catalogazione enciclopedica di ogni aspetto dell'umana  produzione artistica: contiene oggi più di due milioni di opere d'arte che spaziano dagli impressionisti all'arte islamica, dai sarcofagi egiziani agli incunaboli. L'edificio, adagiato lungo il lato orientale di Central park, è di un'imponenza classica e ariosa, la produzione di mostre incessante e di altissima qualità. La visita, in compenso, risulta irrimediabilmente gravosa a meno di dedicarle un'intera giornata a passo lento o di limitarsi a sbocconcellare le collezioni seguendo criteri di non sempre facile definizione.

Ricostruzione intelligente
Per questo l'Imbucato vi propone delle modalità di visita alternative (da seguire preferibilmente il venerdì o il sabato, quando le porte del museo rimangono aperte ai visitatori fino alle 21). Come prima tappa, lasciatevi trasportare dalla linea A della Metropolitana sino agli estremi limiti settentrionali di Manhattan, sulla 190ma strada, per visitare il museo dei Cloisters. Costruito negli anni '30 grazie a una donazione di John Rockfeller Jr., accoglie la collezione di arte medievale del Metropolitan di cui fa oggi parte integrante (il biglietto è quindi unico, conservatelo per la visita pomeridiana delle collezioni principali). L'edificio che lo ospita,  un'abbazia che ovviamente di medievale ha solo la foggia, e i cinque veri chiostri medievali ricostruiti pezzo a pezzo da questa parte dell'oceano dopo essere stati smontati dall'altra, ne fanno il più anacronistico gioiello nascosto di Manhattan: è stupefacente come questa costruzione eminentemente fittizia restituisca lo stesso senso di pace e di raccoglimento dei luoghi originari.  Intorno al museo, il parco a picco sul corso dell'Hudson offre inoltre splendide viste sul fiume, che già si fa bucolico, e sui boschi che lo costeggiano nel lato opposto, le chiatte che lo discendono e il Washington Bridge in lontananza. Terminata la visita, uscite nel piazzale antistante, dove vi aspetta un autobus urbano. In poco meno di un'ora (prezzo della corsa: 2 dollari e 25 centesimi) vi depositerà sulla Quinta Avenue, di fronte all'ingresso dell'edificio principale del Metropolitan, dopo aver attraversato i quartieri nord-occidentali di Manhattan e avervi offerto uno spaccato sulla popolazione variopinta che li popola: Washington Heights, Harlem e il suo cuore pulsante sulla 125ma strada, Columbia University e il suo bel campus sulla 116ma, e poi progressivamente i quartieri più borghesi lungo il nord di Central Park e la Quinta Avenue, i musei del Museum Mile e infine il sontuoso Metropolitan. Una volta varcatane la soglia, nel tardo pomeriggio, fate come me (e Paola e Margherita, turiste a New York in maggio e mie accompagnatrici alla scoperta di questo itinerario, vedi sotto): precipitatevi in uno dei suoi caffè, il Petrie Wine Bar, sedetevi al bancone, ordinate un bicchiere di Chardonnay e sorbitelo godendovi il panorama di Central Park attraverso le grandi vetrate. A quel punto sarete pronti per la visita: inebriati dall'alcool, rinuncerete a seguire i noiosi percorsi cronologici ufficiali e saprete sguinzagliarvi per il museo seguendo solo il vostro istinto e i vostri desideri del momento. Scoprirete le sale delle collezioni permanenti affrancate dalle orde di turisti delle ore di punta e come incantate, sconfinerete nelle innumerevoli esposizioni temporanee scegliendo quella che più incuriosisce, vi farete infine sospingere verso l'uscita dai custodi in uniforme, inflessibili tutori degli orari di chiusura. Vi ritroverete sotto le stelle a respirare l'ebbrezza della Quinta Avenue, tra i visitatori che sfollano, le grandi fontane, i carretti degli Hot Dog che si avviano verso i luoghi di raccolta, i taxi gialli che vi sfrecciano davanti, i portieri gallonati dei grandi condomini a salutare i facoltosi inquilini. E probabilmente vi sentirete felici.

Eccovi le mie compagne di avventura e amiche da una vita:
Paola, nota Grande P., è caratterizzata 
da sempre  da  riccioli, denti e occhiali. Abile nella 
facezia e il gioco di parole, si rivela un cuore d'oro 
con chiunque sappia penetrare la sua natura diffidente. 
In aereo è andata lontano, ma sostiene a fasi alterne 
di averne pauraVive e opera a Roma, ma aspira a un
tetto tutto suo sulle sponde dei mari caldi che l'hanno 
vista nascere. Teme il freddo, aspira alla giustizia. 
(nella foto, P. fa buon viso al terrore di Delta Airlines)
Margherita, nota Margherogna, sostiene di
essere di Sassari ma parla da sempre come
un'annunciatrice della RAI, dove non a caso lavora da anni.
Vanta ricordi di bambina in luoghi esotici, e continua, invidiata,
a volare Alitalia a prezzi stracciati. Di natura placida,
coltiva innumerevoli passioni tra le quali eccelle il jazz in tutte
ma proprie tutte le sue accezioni.
(nella foto, eccola intenta a coltivare)

sabato 7 luglio 2012

Paul, Occupy Wall Street e il senso dell'umorismo

Un'affezionata lettrice ci ha segnalato una mostra fotografica promossa dall'organizzazione no profit italiana Shoot for Change, che grazie all'impegno di fotografi volontari si concentra sulla denuncia di situazioni di crisi e disagio sociale che sfuggono all'attenzione dei mass media. La mostra, inaugurata ieri,  è interessante, e più ancora la galleria che la ospita, che si chiama Soho Photo. Si trova nel cuore di Tribeca in uno dei vecchi magazzini ristrutturati dalla facciata in ghisa che caratterizzano questo quartiere e l'adiacente Soho, ed è a suo modo un'istituzione locale. Fondata nel 1971 da un gruppo di fotografi del New York Times col proposito di creare un'alternativa alle gallerie commerciali, Soho Photo ha tuttora una struttura cooperativa e finalità no profit, esempio raro nel panorama venale e rapace del mercato dell'arte contemporanea. Contrariamente al minimalismo immacolato ed esangue che contraddistingue le gallerie milionarie e insopportabilmente pretenziose concentrate nel quartiere di Chelsea, questa sa di vecchio legno e pittura fresca e si presenta con la faccia affabile e rubizza di Paul, uno dei 110 fotografi soci della cooperativa. Fotografo, Paul lo è più per passione, dall'età di dieci anni, che per professione. È stato insegnante per tutta la vita e ora, archiviata la vita scolastica, è ben felice di potersi dedicare con maggior vigore a ciò che più gli piace fare. 

La sua ultima opera, che troneggia alla sue spalle nella foto sopra, riproduce in piccolo formato decine di immagini, spesso tenere o divertenti, di Occupy Wall Street, il movimento di protesta popolare contro gli eccessi del capitalismo che ha animato il sud di Manhattan nell'autunno scorso. C'è chi reclama un salario massimo e chi sbeffeggia l'1% di americani che detiene il 40% della ricchezza, ma tutti rivendicano di appartenere al restante 99% e dichiarano di averne le scatole piene delle ineguaglianze economiche e sociali e dello strapotere del Grande Capitale Finanziario. A Paul l'argomento interessa.  Le proteste per i diritti civili degli anni '60 se le è fatte tutte, e non nasconde la nostalgia, specie per la grande musica dell'epoca, che traeva in parte origine dai campi di cotone e che fu resa popolare da Joan Baez, Bob Dylan, Pete Seeger (un signore oggi novantenne e a quanto pare sempre sulla breccia che per primo reinterpretò "We shall overcome"). Poi Paul con un gran sorriso mi dice: "Certo, all'epoca c'era la musica. Oggi quella gran musica non c'è più. Però quanto eravamo seriosi, all'epoca. Oggi c'è tanto più senso dell'umorismo!". Le foto sotto, scelte  fra le tante che potrete trovare nel sito Web di Paul, esemplificano le caratteristiche di un movimento che non si prende troppo sul serio. Quanto alla musica, Paul ha preferito associare le sue fotografie non ai rimpianti capolavori degli anni '60 ma a un bel pezzo del canadese Leonard Cohen, che nel 1992 vaticinava: "Democracy is coming to America". Ma una migliore democrazia economica la stiamo ancora aspettando.


mercoledì 4 luglio 2012

Salsicce e fuochi d'artificio: Viva l'Indipendenza!

Forse non tutti sanno che il 4 di luglio non è solo il compleanno di mia sorella (auguri, Simona), ma è anche festa nazionale negli Stati Uniti d'America. La ricorrenza è di quelle importanti: il 4 luglio 1776 le tredici Colonie allora rappresentate al Congresso adottarono la Dichiarazione d'Indipendenza dal Regno Unito. L'aveva redatta il futuro terzo Presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson (al centro), con la collaborazione degli altri quattro Padri della Patria parrucconi che lo circondano qua sotto (il quarto da sinistra, John Adams, divenne anche lui Presidente; fu il secondo, dal 1797 al 1801). Da allora ogni 4 luglio gli americani fanno festa. Per lo più in famiglia o tra amici, si ritrovano per un picnic all'aria aperta e cercano di non perdersi i tradizionali fuochi di artificio serali. 
Sherman, Franklin, Jefferson, Adams and Livingstone

La little red firehouse, un angolo
bucolico a cento metri dai quartieri
difficili di Manhattan 
Barbecue e mariachi lungo il fiume
In onore dell'Indipendenza l'Imbucato ha pensato di fare un'eccezione alla sua notoria avversione per ogni tipo di attività motoria inforcando la bicicletta per percorrere verso nord le cinque miglia della pista ciclabile del Riverside Park che scorrono lungo l'Hudson. Da casa al Washington Bridge, che collega  West Harlem, nel nord di Manhattan, al New Jersey dall'altra parte del fiume, è come fare un tuffo nel sud del mondo. Sotto il sole che picchia, migliaia di famiglie di immigrati messicani festeggiano l'Indipendenza di questo pezzetto di America di cui sembrano essersi con fierezza impadroniti, tra gli effluvi di centinaia di barbecue, la musica mariachi sparata al massimo, le forme prosperose delle giovani madri che inseguono nidiate di bambini armati di biciclette e palloncini. La sosta per il nostro frugale picnic al riparo dalle folle, all'ombra del piccolo faro rosso che sino agli anni trenta evitò il naufragio a tanti bastimenti in questa ansa tuttora perigliosa dell'Hudson, è un momento di puro piacere.
Più a sud lungo il fiume, verso Midtown, l'atmosfera si fa più tradizionale, le biondine ossigenate e i loro fidanzati Wasp invariabilmente in camicia a scacchi e bermuda beige prendono il sopravvento, mentre l'attesa diventa febbrile. Manca poco ai colossali fuochi d'artificio sparati dai barconi disseminati lungo il fiume e c'è chi ha preso posto in prima fila da ore, sulle sedie pieghevoli portate da casa, al riparo dal sole sotto gli ombrellini. Quando l'ora scocca, sono in decine di migliaia a essersi assiepati nei lungofiume sul lato occidentale dell'isola di Manhattan per osservare i fuochi d'artificio, immortalarli, sottolineare con sonori "Wow" e salve di applausi gli effetti più spettacolari. Alle dieci di sera è tutto finito, i newyorchesi defluiscono in buon ordine, la festa si chiude come era cominciata: alla buona. La prima potenza militare al mondo sembra preferire salsicce alla brace e fuochi d'artificio alle parate militari, per festeggiare la propria Indipendenza. E se le canzoni patriottiche non possono mancare in simili giornate, ve ne proponiamo una, "America the Beautiful" che Mitt Romney, artatamente commosso, non perde occasione di citare ad ogni raduno politico. Per addolcirvi la pillola, eccovene la versione nobilitata per quanto possibile dalla grande voce di Ray Charles.

martedì 3 luglio 2012

Dalla California qualcuno ci guarda




Adagiata su un'altura che domina la Simi Valley poco a nord di Los Angeles e che lascia scorgere in lontananza i dolci, aridi profili del Canyon Park, la Ronald Reagan Presidential Library è punto di riferimento per i tanti semplici cittadini e gruppi politici organizzati che intorno all'ex Presidente hanno costruito un vero e proprio culto della personalità. Reagan è stato uno dei Presidenti che più hanno diviso il paese e il mondo, e chi come me è cresciuto in Europa negli anni '80 considera assiomatico detestarne la retorica liberista, l'avversione al ruolo regolatore dello Stato, l'anticomunismo viscerale e la politica di riarmo. Sebbene la sua eredità politica sia tuttora controversa, il giudizio sui suoi due mandati ha tuttavia subito un'evoluzione. Oltre allo straordinario carisma e capacità di comunicazione che nessuno gli potrebbe negare, anche gli avversari liberal del New York Times gli riconoscono pragmatismo e inclinazione al compromesso, specie in rapporto alla cieca intransigenza ideologica su cui si è appiattito l'odierno Partito Repubblicano, che di Reagan sa apprezzare solo l'oltranzismo retorico. Tagliò le tasse drasticamente come aveva promesso ma seppe anche andare nella direzione opposta per fronteggiare il deficit crescente; dilatò a dismisura le spese militari per fronteggiare l'Unione Sovietica ma seppe tendere la mano a Gorbaciov al momento opportuno, aprendo la strada al disgelo e al disarmo nucleare.

Reagan e Gorby (82 anni)
Reagan e Nancy (91 anni il 6 luglio)
Persino Obama non fa mistero della sua ammirazione per Reagan, non sul piano dei contenuti ma per aver saputo rilanciare l'America imprimendole una trasformazione a immagine della propria visione politica.  La sua eredità si è rivelata talmente duratura che tutte le amministrazioni successive hanno dovuto abbracciarla o adattarvisi, fino a quando il crac finanziario del 2008 ha finito per metterla in crisi.  E mentre i suoi avversari repubblicani a essa si attaccano rabbiosamente come naufraghi a una cima, facendo peraltro mostra di dogmatismo e scarsa capacità propositiva, Obama vorrebbe riuscire a discostarsene, affrancandone il paese in maniera altrettanto duratura. Ma con la situazione economica che non accenna a migliorare Mitt Romney cercherà di avere buon gioco contro il Presidente usando gli stessi semplici argomenti economici con i quali Reagan affondò Carter nel 1980. Rivolgendosi direttamente ai cittadini colpiti dalla crisi economica chiese: "La vostra situazione è migliorata rispetto a quattro anni fa?". All'epoca gli americani risposero di no, mettendo al tappeto il Presidente uscente. Oggi la risposta potrebbe non essere altrettanto semplice. Carter era più screditato e si era dimostrato di gran lunga più inetto di Obama, che è ancora rispettato e popolare. Inoltre, Reagan era l'astro nascente della destra (a 70 anni!) e portatore di una visione potente e alternativa, nonché ex-governatore di un grande Stato come la California e candidato sconfitto di stretta misura alle primarie repubblicane di quattro anni prima dal Presidente in carica Ford. Non altrettanto si può dire dell'insipido plutocrate Romney che ancora stenta a decollare nei sondaggi e che non dispone di un centesimo del carisma dell'anziano ex-attore. Provare per credere: eccovi l'appello agli elettori che seguì il dibattito Reagan/Carter del 1980 con il quale Reagan mise in tasca la vittoria. Mitt Romney può sempre imparare:



Le Presidential Libraries: Franklin Delano Roosevelt fu il primo, ma tutti i suoi successori ne seguirono l'esempio alla fine del mandato donando al governo federale le loro carte personali e di lavoro e facendo costruire con l'impegno finanziario di sostenitori e simpatizzanti privati un archivio che le ospitasse, di norma associato a un museo dedicato alla loro Presidenza. Queste "Presidential Libraries" sono oggi dodici, ospitate da un capo all'altro del paese nelle comunità di origine di ciascun Presidente: dallo Stato di New York di Roosevelt alla California di Nixon, attraverso il Kansas di Eisenhower, l'Arkansas di Clinton e via elencando.  La lista è destinata inevitabilmente ad allungarsi: l'apertura di quella dedicata a George W. Bush è prevista per l'anno prossimo a Dallas, mentre Obama deve sperare in cuor suo di non doversi occupare della questione tanto presto. Il paradosso che gli Americani non fanno fatica a trovare conciliabile è che le "Libraries" svolgono il duplice ruolo di autorevoli centri di ricerca i cui fondi documentali sono gestiti per legge con criteri scientifici dai "national Archives", e di sacrari laici fatti erigere alla propria gloria eterna dai Presidenti del dopoguerra e dai loro fan. Come moderni faraoni, la maggior parte dei Presidenti che non sono più di questo mondo si sono peraltro avvalsi della facoltà di farsi inumare nei giardini ombreggiati della loro Library. I musei presidenziali sono curati e interattivi e danno accesso a materiali audiovisivi inediti o poco noti.  Tuttavia, l'intento agiografico di chi li ha finanziati e fatti costruire inevitabilmente fa capolino dietro l'apparente impostazione obiettiva. 
Se le sezioni dedicate alla First Lady di turno, ai doni ricevuti dai Capi di Stato stranieri e alla ricostruzione del mitico Ufficio Ovale non mancano mai, la Reagan Presidential Library offre in più una chicca: l'Air Force One inaugurato nel 1973, che servì a scarrozzare in giro per il mondo sette Presidenti, fino a George W. che lo mise in pensione definitivamente. Il vecchio 707 cromato e lucidato fa bella mostra di sé in un grande hangar, e la gente fa la fila per farsi fotografare sulla scaletta e ammirarne gli interni in formica, i vecchi rivestimenti in sky, gli angusti corridoi. Simboli di un immenso potere che talora predilige l'understatement.