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sabato 31 marzo 2012

Una giornata a Brooklyn, how sweet it is!

Di Brooklyn, la nostra Manhattan allo specchio, abbiamo già parlato. E ora, tanto per rincarare la dose, eccovi qualche proposta aggiuntiva per passarci una dolce giornata, in ottemperanza con i dettami delle pubbliche autorità.

Ore 16, Carrol Gardens:
Passeggiata a Carrol Gardens,  uno dei quartieri storici di Brooklyn in cui la comunità iniziale di immigrati italo-americani ha fatto posto a un più variegato gruppo di espatriati agiati, tra cui spiccano i francesi che mandano i bambini alla vicina scuola francofona. Case a tre piani tardo-ottocentesche in mattoni rossi, giardini antistanti e parchi pubblici, ristoranti e caffè accoglienti e tirati a lucido: il sogno di chi ha bambini e vuole potersi permettere qualcosa di più che a Manhattan.

Ore 18, Brooklyn Heights, aperitivo con vista:
Ogni turista che si rispetti conosce la passeggiata di Brooklyn Heights, che a picco sull'East River offre accoglienti panchine e una vista sul sud di Manhattan talmente mozzafiato da compensare le fatiche dell'attraversamento del ponte di Brooklyn. Ma forse non tutti si soffermano a osservare, alle spalle della passeggiata, il quartiere di Brooklyn Heights. Antico buen retiro delle classi agiate newyorchesi in cerca di quiete a pochi minuti di battello a vapore da Manhattan (prima che arrivasse il ponte), Brooklyn Heights ha offerto asilo, tra gli altri, a scrittori del calibro di Walt Whitman, Truman Capote e Arthur Miller, oltre naturalmente al reporter Clark Kent. Ed è passeggiando tra i fantasmi, nello splendore delle case del primo ottocento, dei languidi viali che le separano l'una dall'altra e tra gli alberi carichi delle prime fioriture, che a valle, a pochi metri dal fiume, abbiamo scoperto la vera chicca del quartiere: Ignazio's Pizzeria (da non confondersi con l'antica e più nota Grimaldi's, a un tiro di schioppo, presso la quale i turisti fanno la fila per ore). Un palazzotto insulso appena rinfrescato ai piedi dei giganteschi piloni e alle spalle del celebrato River Café (100 dollari per cena senza contare il vino) e l'adiacente deposito dei camion della nettezza urbana. Dieci vetrate d'angolo a disposizione per ammirare uno dei panorami più belli del mondo al prezzo di una birra italiana. E a giudicare dall'aspetto e dai commenti on line dei clienti, le pizze, in stile newyorchese, alte e croccanti, tagliate a spicchi e servite sul classico vassoio di alluminio con il piedistallo, non devono essere per niente disprezzabili. 

Ore 20,  uno spettacolo a Brooklyn.Questa la sapete già. A teatro, a Brooklyn, si va al BAM.

Ore 23, cena a Williamsburg:
Per cena, puntiamo su Williamsburg, uno dei quartieri più giovanili e vitali di tutta New York, per assaporare il meglio della cucina etnica. Sarda. Andiamo da DOC, il locale aperto dal lontano cugino nuorese della nostra amica sardo-romana che vive e opera a Bruxelles e di cui taceremo il nome per rispetto della privacy, ma le cui sembianze avrete già appreso a riconoscere nelle pagine di questo blog (un po' più in alto la vedete seduta da Ignazio's). DOC è un apprezzato wine-bar sardo in tutto salvo nel nome: propone malloreddus, cinghiale in umido, pane pistokku e vini dell'isola in un décor che lo fa assomigliare alla sede locale di Su Gologone, Oliena. Buono, accogliente e aperto fino a tardi, unico neo un cameriere poco allegro; un sardo plausibile, quindi, ma che tale non è: è di Gaeta.

Ore 2, le vibrazioni della Linea L:
Ritorno con la linea L della metro: da Williamsburg, Brooklyn, a West Manhattan in poche fermate e tanta animazione: alle 2 del mattino l'atmosfera nella stazione di Bedford Avenue trasuda adrenalina e entusiasmo giovanile in modo quasi caricaturale: centinaia di giovani multicolori in tutti i sensi riempiono il marciapiede e si riversano nei vagoni; ridono e si danno pacche, fanno mosse sgangherate, si sorridono, si baciano o socchiudono gli occhi assaporando il riposo in una sorta di attivismo armonico positivo orchestrato da Sam Mendes per un prossimo musical di Broadway sulla gioventù felice. Manca solo chi tiri fuori la musica e attacchi con la danza. Un'atmosfera del genere è bella anche solo da guardare; anche se, questa volta per ragioni ahimè puramente anagrafiche,  ci si sente più Imbucati del solito... 

mercoledì 28 marzo 2012

New York, il Jazz e il Village Vanguard


New York coltiva con crescenti difficoltà la sua reputazione di Capitale mondiale del Jazz. I musicisti continuano a bazzicarla, ma il pubblico diminuisce, le tournées si assottigliano, alcuni locali storici hanno chiuso i battenti e quelli che restano vivono una crisi latente. Non è un mistero che molti di essi sopravvivano grazie al contributo dei turisti giapponesi, che per amore del jazz o del mito della New York degli anni '20 continuano a frequentarli con costanza e in gran numero. Il Village Vanguard, che dei locali jazz di New York è uno dei più prestigiosi decani, non sembra sfuggire alla regola. Se la scontrosa supponenza con cui si viene accolti e il fastidioso decalogo di regole di comportamento da seguire sono forse studiati per coltivare il mito, probabilmente non si può dire altrettanto dei tavolini in formica scrostata, del tanfo di umido che coglie all'ingresso, delle condizioni pietose in cui versano le toilettes. Ma che si tratti di una politica deliberata o delle conseguenze della crisi, quel che è certo è che il Vanguard è riuscito nell'impresa di rimanere quello che è sempre stato dalla sua fondazione nel 1935 da parte di Max Gordon: una cantina triangolare umida in pieno Greenwich Village, ingombra di tavolini e coperta di velluti rossi dove si ascolta dell'ottima musica e, dagli anni 50, unicamente del jazz. Sonny Rollins, Bill Evans e John Coltrane non solo vi suonavano regolarmente, ma vi hanno registrato alcuni dei loro dischi, e lo stesso hanno fatto Dexter Gordon, Wynton Marsalis, Brad Mehldau e tanti altri, che hanno lasciati i segni del loro passaggio nei poster affissi alle pareti. Si calcola che al Vanguard sono stati registrati più di cento album di musica jazz dall'apertura a oggi. 

Non è forse al livello di Sonny Rollins, ma Enrico Pieranunzi, che si è esibito ieri sera al Vanguard con il suo trio, è uno dei più grandi jazzisti italiani viventi, e ci ha regalato degli splendidi momenti di buona musica, per lo più tratta dal suo ultimo Permutation, melodico, gradevole e di grande atmosfera. Ci accompagnava una nostra cara amica, musicista prestata alle politiche comunitarie che ci fa visita in questi giorni, qui sopra ritratta mentre sorseggia uno scadente Calvados nella quiete ovattata del Vanguard dopo lo spettacolo. Accanto a noi, tre businessmen nipponici hanno seguito lo spettacolo con professionale attenzione svuotando una o più bottiglie di champagne Piper. Sperando che i giapponesi non si stanchino di frequentarlo, auguriamo lunga vita al Vanguard. 
Smoke, il Jazz Bar dell'Imbucato

Pagato il doveroso tributo alla leggenda, consentiteci di esprimere la nostra personale preferenza tra i locali jazz visitati finora. Si chiama Smoke e si trova sulla Broadway a pochi isolati da casa, dove l'Upper West Side sconfina in Harlem. È carino è accogliente, rifatto di fresco e foderato degli inevitabili velluti rossi. A pensarci bene, assomiglia talmente da vicino a quello che un turista europeo mediamente imbevuto di iconografia cinematografica americana si immagina debba essere un locale jazz newyorchese da far dubitare della sua autenticità. Sappiamo anche per certo che non ci ha suonato John Coltrane, anche se può vantare un pezzettino di leggenda per aver ispirato l'omonimo film di Paul Auster, abituale frequentatore del locale nella sua precedente versione. Ma i suoi principali punti di forza sono tre, e non secondari: non si paga l'ingresso in settimana, si mangia piuttosto bene (in particolare un delizioso pesce gatto), e chi lo gestisce è accogliente e sorride con piacere. Tutte caratteristiche che lo distinguono dalla media dei locali più paludati. Ah sì, e quelli che ci suonano e cantano ce la mettono tutta e fanno spesso un ottimo lavoro. Quanto basta all''Imbucato per tornarci sempre con piacere. 

venerdì 23 marzo 2012

L'Imbucato vi segnala: arabi invisibili

La giornalista Paola Caridi, impegnata in un tour di Università americane per presentare il suo libro su Hamas appena tradotto in inglese, ha fatto tappa oggi a Columbia University e ci ha fornito un quadro chiaro, competente e per una volta non ideologico o puramente militante degli attuali sommovimenti all’interno di Hamas, l’organizzazione politica che governa nella Striscia di Gaza e con cui l’Occidente si ostina a non voler parlare. Paola Caridi è corrispondente da Gerusalemme Est per l’associazione di giornalisti Lettera 22, ha vissuto per più di dieci anni in Medio Oriente, e ha al suo attivo un altro libro che ha attirato l'attenzione dell'Imbucato. È dedicato agli “Arabi invisibili” ed è stato scritto nel 2007, vale a dire ben prima che la ventata rivoluzionaria mutasse repentinamente la percezione in occidente dei popoli arabi da istigatori di odio e violenza a agenti di cambiamento e democrazia. Il libro già nel titolo e nel sottotitolo, Catalogo ragionato degli arabi che non conosciamo. Quelli che non fanno i terroristi, denota interesse, ma anche un certo grado di amore e tenerezza per il mondo arabo. Gli stessi sentimenti si possono ritrovare nel blog di Paola Caridi, Invisible Arabs, che vi consigliamo.
Per completezza di informazione e per evitare confusione, vi segnaliamo che "The Invisible Arab" è anche il libro appena pubblicato da Marwan Bishara, uno dei giornalisti di punta di Al-Jazeera English, anche lui di passaggio a Columbia un mese fa. Bishara si serve della stessa metafora per indicare le masse arabe e spiega come -con la guida delle giovani generazioni- esse siano riuscite a risvegliarsi da decenni di torpore per abbattere  regimi in apparenza eterni e prendere in mano il loro destino.  A cui Bishara guarda con cauto ottimismo; ora che i popoli arabi sono tornati protagonisti non scompariranno tanto presto. 

mercoledì 21 marzo 2012

Provate Spotify! (un pretesto per riconciliarmi con Lucio Dalla)


La nuova diavoleria per IPhone si chiama Spotify, che per una volta è un prodotto tecnologico nato in Europa, nel 2008, dalle menti di informatici svedesi. Disponibile da poco più di sei mesi negli Stati Uniti, il sistema consente agli utenti registrati di accedere via Internet in qualunque momento a un archivio musicale di 15 milioni di canzoni e di ascoltarle quasi gratis e quasi senza limiti, senza necessità di scaricarle o di acquistarle. Un'immenso repertorio discografico sempre disponibile a patto di disporre di un accesso Internet. Un sogno per l'Imbucato, che non è mai stato posseduto dal feticismo del CD, che di musica non ne ascolta mai fuori casa (nella metro o in autobus è tanto più interessante ascoltare le conversazioni altrui che scaldarsi i preziosi padiglioni con le insopportabili cuffiette), e che è ormai notoriamente IPhone-dipendente.


La scoperta di Spotify è stata l'occasione nei giorni scorsi per riascoltare il miglior repertorio di Lucio Dalla, quello degli anni '70 e primi '80. Lucio Dalla: seppellito due settimane fa nel tripudio dell'incenso e lo strascico delle polemiche. In molti -Imbucato compreso- si sono sentiti traditi da un gay che anziché dichiararsi davvero ha preferito trincerarsi dietro il personaggio di etereo angioletto asessuato parruccato e ammiratore delle gerarchie ecclesiastiche anziché sfidare, forte della sua popolarità, le arretratezze della società italiana.  Con l'aiuto di Spotify ho passato in rassegna il Dalla di quegli anni, che aveva saputo cantare con poesia e sensibilità le vicende quotidiane, i rapporti sentimentali, e con ispirata sfrontatezza per l'epoca la carnalità e il sesso.  E ho scoperto che canzoni come "Quale allegria", "Futura", "Cara", "Come è profondo il mare", "Disperato erotico stomp" e tante altre mi commuovono oggi come quand'ero adolescente e guardavo il mondo dalla mia cameretta con vista sui palazzi, gli stagni, il mare e i monti in fondo in fondo. Così, la riconoscenza che gli devo come artista per le tante emozioni che mi ha regalato ha finito per avere il sopravvento, inducendomi a maggiore indulgenza rispetto alle sue ambiguità sul piano privato. Provate dunque Spotify, per lenire ogni vostro patimento dell'anima. È garantito dagli informatici svedesi, e quasi gratis.

Come accedere a Spotify

Spotify fornisce un servizio gratuito da computer, e al prezzo di 10 dollari al mese da smartphone. Nel primo caso, vi impone delle interruzioni pubblicitarie e dei tetti mensili di accesso, nel secondo l'accesso è senza limiti e senza pubblicità; in entrambi i casi potrete creare i vostri elenchi di brani preferiti. Basta collegarsi, scaricare l'application e creare il proprio conto (ahimè, attraverso il proprio conto Facebook). Al momento Spotify non è disponibile in Italia. Ma niente paura: l'Imbucato ha scovato su Internet un modo per aggirare l'ostacolo che dovrebbe consentirvi di utilizarlo ugualmente. Cliccate qui e fateci sapere se funziona. 

lunedì 19 marzo 2012

Per gli Obama comincia la campagna elettorale

Dopo essersi limitato a osservare le baruffe nel campo avverso, Obama entra a pieno titolo in campagna elettorale e getta nella mischia la moglie Michelle, che gode di tassi di popolarità decisamente più elevati dei suoi. Michelle è comparsa ieri sera in TV da David Letterman, il decano e di gran lunga il più sottile e divertente degli intrattenitori dei salotti televisivi notturni, e ha monopolizzato l'intera trasmissione. Un Letterman troppo deferente al cospetto della First Lady, con cui peraltro di certo condivide la matrice politica liberal, ha mantenuto la conversazione a un livello che si conviene con chi è preposto a occuparsi della spesa, della cucina, dei bambini (Malia e Natasha) e degli animali domestici (lo spinone di corte Bo). Tra gli argomenti più seri, la First Lady ha abilmente fatto finta di commuoversi all'evocare la sua famiglia di origine, semplice e proletaria ma assai unita, e ha parlato delle campagne di cui le è stata attribuita la responsabilità, quella per il reintegro dei veterani di guerra e contro l'obesità. Malgrado i limiti imposti alla conversazione, per l'Imbucato, che non l'aveva mai sentita parlare, Michelle è stata una vera sorpresa. Al di là del suo fascino sicuro da cinquantenne piacente e soddisfatta di sé, la donna dispone di spigliatezza e senso dell'umorismo da star dello spettacolo uniti a una precisione del linguaggio e una chiarezza di idee da leader politico. 
Bo, e Obama che lo scorrazza in grisaglia

La famiglia riunita

Un asso nella manica per il marito, che al momento ha poco da scialare malgrado le difficoltà in cui si dibattono i suoi mediocri avversari repubblicani. L'economia riparte sul piano statistico ma gli effetti tardano a farsi sentire sul piano pratico e i tassi di popolarità del Presidente, piuttosto ballerini, al momento ne risentono parecchio (sono sotto il 50% secondo l'ultimo sondaggio del Washington Post, vale dire a dei livelli che mai hanno garantito a un Presidente uscente di riguadagnare la Casa Bianca a 8 mesi dalle elezioni). Ma la campagna per Obama non fa che cominciare, e mentre lui si prepara a difendere punto per punto i suoi successi, per il momento è un breve film che si incarica di farlo, passando in rassegna gli eventi principali della sua Presidenza ("The Road We've Traveled"): il crack finanziario e la depressione economica sventata dalle lungimiranti decisioni del Presidente; la riforma sanitaria che ha garantito la copertura sanitaria a un maggior numero di Americani; la cattura di Bin Laden che ha regalato al paese maggiore sicurezza.  Girato da un noto documentarista, Davis Guggenheim, e raccontato dalla celebre (bella) voce di Tom Hanks che gli conferisce autorevolezza, il documentario racconta gli eventi in chiave epica, drammatizzandone i contenuti con un uso sapiente delle immagini in bianco e nero, del fermo immagine e delle interviste ai protagonisti. Se non fosse interamente finanziato dalla campagna di Obama, di cui costituisce il calcio d'inizio, ci sarebbe da crederci. E a dire il vero, noi ci crediamo quasi al 100%. Resta da vedere se ci crederà la maggioranza degli Americani. Per il momento, godetevi il film (17 minuti):



domenica 18 marzo 2012

Metti, una sera all'Opera...


Il Lincoln Center (al centro, la Metropolitan Opera). 
Negli anni 60, per fargli spazio, fu raso al suolo un intero quartiere, e 7000 famiglie, 
essenzialmente di immigrati, dovettero cercar casa altrove.   
L'Imbucato si è insinuato all'Opera, evento inedito per lui che durante i suoi primi 44 anni si era ben guardato dal farlo. L'Opera era "L'Elisir d'Amore" di Donizetti, e veniva rappresentata al Metropolitan Opera (Met) del Lincoln Center, una delle più prodigiose macchine di produzione di arti della scena al mondo. Sebbene anche il Met risenta della crisi economica e dell'inevitabile declino della lirica, ha un ruolino di marcia da fare invidia ai nostri estenuati enti lirici: 27 opere prodotte all'anno e rappresentate a rotazione durante la settimana grazie a dispositivi tecnici d'eccezione, una stagione che dura ininterrotta da settembre a maggio, una pioggia di donazioni private. La Metropolitan Opera è un piccolo capolavoro architettonico degli anni '60, che reinterpreta nello stile internazionale dell'epoca la magnificenza dei teatri operistici europei dell'800: grandi archi di travertino con vista sulla piazza, sontuose scalinate in cemento armato,  preziosi lampadari moderni a forma di costellazione stellare, grandi pannelli di Chagall a decorare il tutto.  


Certo per potervi accedere, e passeggiare suoi suoi velluti rossi tra i newyorchesi incravattati che sorbiscono champagne all'intervallo, vale il principio che bisogna sciropparsi l'Opera lirica prevista in cartellone. I biglietti erano gratuiti,  offerti da un amico a quanto pare scenografo di una nostra amica in carriera a cui la carriera sta attualmente minando la salute mentale. Quanto all'Opera, poteva toccarci in sorte di peggio. L'"Elisir" è relativamente breve, e poi allegra. La trama, che nel 1832 quando andò in scena per la prima volta dovette apparire insulsa già ai contemporanei, narra di Nemorino, povero e grullo ma capace di immenso amore per la bella Adina, il quale cerca di strappare quest'ultima alle grinfie di un ufficiale macho e pieno di sé l'attraverso l'uso di una sedicente pozione d'amore rifilatagli a caro prezzo da un ciarlatano ambulante. Va da sé che riuscirà nel suo intento, anche perché ci sorge il sospetto che Adina, che è sciocchina e ammiccante ma forse meno grulla di lui, abbia scoperto (come noi spettatori) che Nemorino ha ereditato una fortuna da un vecchio zio. I protagonisti se la cantano dall'inizio alla fine anche quando non sembra necessario (e i monitor coi sottotitoli in inglese sulle spalliere delle poltrone come in aereo confermano la scarsa profondità del loro pensiero), ma la star peruviana che interpreta Nemorino è abbastanza atletico e piacente e cerca anche di recitare. "Di cantare non è capace", sentenzia l'altra nostra accompagnatrice, una settantenne parigina a New York da trent'anni a cui non garba nulla e men che meno gli americani: al peruviano rimprovera di non strillare come sapeva fare Pavarotti. E il pensiero di Pavarotti sessantenne con la barba luciferina tinta col carboncino e i duecento chili di troppo che impersona il giovane innamorato ci fa venire un brivido lungo la schiena (se avete coraggio andatevelo a vedere qui). Misteri della lirica. A smentire la parigina, il Nostro Nemorino infila un'a quanto pare impeccabile "Quella furtiva lacrima" (malgrado parte della scenografia in un inatteso fuori programma abbia rischiato di abbattersi rovinosamente su di lui poco prima), e il pubblico del loggione (esiste davvero!) che lo aspettava al varco lo premia con un'ovazione a scena aperta. Il melodramma giocoso si chiude col trionfo dell'amore in un festoso sventolare di miriadi di tricolori che ci scaldano il cuore. 

martedì 13 marzo 2012

L'Hotspot Senzatetto

Un lettore fedele ci segnala un'interessante iniziativa figlia dello spirito imprenditoriale americano, e che consigliamo vivamente ai nostri amministratori locali che ne sono tragicamente privi. A Austin, Texas un'agenzia di comunicazione ha pensato di recuperare al ciclo produttivo degli individui sinora marginali e dediti al vagabondaggio, adibendoli a trasmettitori di onde elettromagnetiche per reti cellulari. Come funziona? Semplice. Chiunque trovandosi per strada abbia bisogno rapidamente di una rete WiFi, può localizzare il più vicino barbone che partecipa all'iniziativa (facilmente riconoscibile, supponiamo, per gli apparati elettronici appesi al collo oltre alla bottiglia di vino scadente d'ordinanza), e collegarsi in rete per suo tramite, previo pagamento di un'offerta (i senzatetto già percepiscono un salario dalla società: 20 dollari al giorno). È un'iniziativa semplice, moderna, pratica per il cliente e appagante per il senzatetto partecipante. Ci sfuggono le ragioni, certo pretestuose, delle polemiche nate intorno ad essa. Siamo sicuri che Mitt Romney saprà valorizzarla come proposta vincente della sua campagna per tagliare l'assistenza sociale e rilanciare nel contempo l'impiego.

Non ci credete? Tutto vero. Cliccate qui 

lunedì 12 marzo 2012

Spring ahead!

Tarallucci e Vino, 83rd and Columbus
Questo week end abbiamo adottato l'orario estivo (spring ahead, come lo chiamano con la consueta espressiva precisione gli americani) e la primavera è arrivata come d'incanto, con un po' d'anticipo rispetto al calendario e all'Europa. Le temperature sfiorano i 20 gradi, la gente se ne va in giro in camicia e i ristoranti hanno messo fuori i tavolini (l'Imbucato scrive dalla terrazza di Tarallucci e Vino, il caffè/snack bar italiano che predilige nell'Upper West Side).
Central Park ha cambiato volto all'improvviso: tra gli alberi ancora nudi ma che si coprono di spunzoni verdognoli che esperti botanici definirebbero, credo, germogli, è tutta un'esplosione di joggers a torso nudo (hanno dovuto pazientare tutto l'inverno, bisogna capirli), turisti inebriati che fotografano le foche dello zoo, bambini scarrozzati da balie di provenienza esotica, e grappoli di cani di ogni foggia che trascinano dog-walkers, una delle nuove professioni in voga. L'Imbucato, che più che la primavera in sé assapora lo scampato pericolo di un inverno che è passato in punta di piedi e dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) ormai averci voltato le spalle, festeggia l'evento con due deliziosi hot dog acquistati in uno dei carrettini colorati disseminati ai confini del parco e gestiti per lo più da Pachistani. Ketchup, niente senape, e vista spettacolare sul reservoir.













E nell'augurare buona primavera a tutti, il pensiero va anche a quelli che la primavera non la tollerano. Perché allergici ai pollini o perché le rimproverano quel senso di sonnolenza indolente a cui spesso induce, quella malinconia che coglie quando le lunghe giornate dal tempo tiepido ma ancora precariamente instabile si avviano alla fine lasciando un senso di fragile incompiutezza. A costoro dedichiamo un pezzo del commediografo Noel Coward, significativamente intitolato "I hate spring", interpretato da Justin Bond, che abbiamo visto l'altra sera dal vivo. Bond è un artista transessuale idolatrato dalla comunità gay di New York che ci ha affascinato con due ore ininterrotte di canzoni e riflessioni satiriche. Sarà la sua intelligente irriverenza, o anche il fascino rétro dei tavolini a contatto di palco del teatro/cabaret Joe's Pub in cui si è esibito ma alla fine ci siamo scoperti a sgomitare per farci autografare la biografia che ha appena pubblicato. Letture di primavera...


The hot dog Index

I patiti di economia, e so che siete in tanti, sappiano che il prezzo dell'hot dog del pachistano per strada a New York era di due dollari il 12 marzo 2012. L'imbucato ha ingurgitato dozzine di hot dog quando era studente a Washington -più per ristrettezze economiche che per passione per la carne di cane. Pagava quegli hot dog, fino alla data indicativa di marzo 1995 oltre la quale ha rifiutato di sentirne anche l'odore, un dollaro. Un aumento del 100% in 17 anni. Ai patiti di economia lasceremo il compito di calcolare se tale aumento è linea con il tasso di inflazione negli Stati Uniti. 

venerdì 9 marzo 2012

Parole sante

Sembra che la società di traslochi e deposito di mobili "Manhattan Mini Storage" abbia un'anima liberal e ci tenga a dire la sua sui grandi temi politici e sociali. In materia di matrimonio gay l'opinione di Manhattan Mini Storage che tappezza i muri della città è lapidaria e di buon senso: "Non ti piace il matrimonio tra omosessuali? Non fare un matrimonio omosessuale." Dieci. Semplici. Parole. Ci voleva una società di traslochi... 

Il matrimony gay vista dal ponte di Brooklyn

giovedì 8 marzo 2012

I seminari dell'Imbucato e l'immagine dell'Europa

La locandina del seminario. Ogni riferimento a persone reali o istituzioni esistenti è puramente casuale

La faccia dell'Europa...

L'Imbucato ce l'ha fatta! È penetrato nel sancta santorum della Prestigiosa Università dell'Upper West Side, e nella sede neogotica del Middle East Institute appena fuori dal Prestigioso Campus centrale ha fatto un seminario sulla Turchia e l'Unione europea.

La sede neogotica
Già, l'Unione europea: questa  bistrattata semisconosciuta. A scorrere la lista degli insegnamenti della Prestigiosa Università, il termine 'unione' non appare, mentre il termine 'europeo' identifica uno degli istituti, i cui insegnamenti spaziano da 'realismo nella letteratura tedesca' a 'greco elementare: Omero' o 'ucraino avanzato'. Nulla di successivo alla seconda guerra mondiale (o forse sì : 'modernità sessuale europea'?) e nulla di attinente all'Unione europea. "L'Europa non tira", scuote la testa uno dei direttori della scuola di relazioni internazionali, che offre uno stiracchiato "politica economica dell'integrazione europea" (7 studenti questo semestre) e il più popolare "crisi del sistema bancario europeo". Quella sì che tira, in America, con le prime pagine dei giornali a concentrarsi sulla Grecia e gli altri 'PIIGS' e a preannunciare, in uno di quegli scenari-catastrofe tanto cari ai verbosi quotidiani d'élite americani, la fine imminente dell'Unione europea. Una catastrofe forse relativa, tuttavia, poiché pochi Americani hanno una seppur vaga idea di cosa sia l'Unione. Non vi dico le contorsioni dell'Imbucato per spiegare a eventuali interlocutori la propria provenienza e professione:  funzionario, Unione europea, Bruxelles, Belgio, italiano. Di norma colgono l'ultima, Italia, e iniziano a parlare di crisi economica o di  delicious food. Per evitare il tormento di spiegare cosa sia l'European External Action Service alla Prestigiosa l'hanno fatta breve e sul volantino hanno scritto 'EU Foreign Service'. E non si può contare sulla campagna elettorale repubblicana per fare chiarezza. Il tema dell'Europa come partner transatlantico, per esempio, non figura nel dibattito sulla politica estera - o è forse semplicemente dato per scontato. In compenso l'Europa è ben presente in quello sulla politica interna, in chiave di spauracchio negativo. La recente uscita di Santorum sull'Olanda è forse da derubricare a semplice aneddoto: il Candidato se l'è presa con una presunta eugenetica di Stato in Olanda  asserendo con estrema serietà che i vecchi e i malati scappano all'estero per evitare di finire in ospedale, dove se incurabili verrebbero automaticamente soppressi  (per saperne di più cliccate qui, e grazie a Ivo per la segnalazione). Più seriamente, uno degli argomenti prediletti e martellati dai repubblicani, il "moderato" Romney in primis, a ogni comizio, è che Obama voglia svendere il paese al fallimentare modello europeo di interventismo statale e protezione sociale, con l'intento deliberato di annacquare quello liberista a prevalenza privata che ha fatto grande l'America. E se di certo si tratta di propaganda elettoralistica, al sentire gli applausi scosciare immancabili viene da dirsi che l'immagine dell'Europa in America non se la passa troppo bene.

Tutto questo per dire che  il seminario sulla Turchia e l'Europa miracolosamente non è andato deserto nonostante i terrori della vigilia (il programma di seminari è nutrito, non tutti vanno esauriti, e per di più come già sappiamo l'Unione Europea non tira, ammonivano gli organizzatori, gettando nel panico il malcapitato Imbucato già intimidito dal debutto in cotanto paludato ambiente accademico). Invece il seminario ha richiamato una quarantina di attenti partecipanti  tra studenti e docenti, peraltro in pieno periodo di pre-esami. Che hanno dimostrato un grande interesse e una certa conoscenza dei meccanismi di funzionamento del'Unione. A fare numero, c'era anche il consueto nucleo di pensionati, come a tutti i seminari che si rispettano da queste parti. Richiamati forse dalla presenza di biscotti e caffè si trascinano, talora penosamente, sino alle aule dalle loro case dell'Upper West Side; quelli fra loro che rimangono coscienti seguono, prendono appunti e spesso formulano domande non sempre intellegibili, per poi unirsi all'applauso finale, che non è mancato anche stavolta. L'imbucato, rinfrancato da tanto successo, cercherà di ripetersi nei prossimi mesi.

... E la faccia dell'Imbucato


mercoledì 7 marzo 2012

Super Tuesday: Romney vince ma non convince (l'avevate già sentita?)




Mitt a Boston, casa sua
Se siete davvero curiosi di sapere come è finito Super Tuesday rileggetevi il post di ieri, scritto a urne ancora aperte: Mitt ha vinto ma non ha convinto, specie in Ohio, Stato-chiave dove ha inseguito per tutta la serata e ha vinto per un punticino percentuale di scarto; Santorum ha vinto tre Stati, e non dei meno importanti (il Tennessee, per esempio), confermandosi il preferito della destra pura e dura e assurgendo a vincitore morale della serata; Newt Gingrich ha vinto la 'sua' Georgia, quanto basta per coccolare il suo ego sterminato e mantenersi teoricamente in gara (come se ce ne fosse bisogno).

La corsa continua dunque, con un battistrada che arranca verso la meta con gli scarponi piombati, determinato a strappare uno a uno i delegati necessari per raggiungere la fatidica soglia di 1144, di norma sufficienti per ottenere la nomination. Ma come potete vedere qua sotto (CNN), ne è ancora ben lontano, sebbene cominci piano piano a distanziare Santorum. E gli Stati che si profilano all'orizzonte (Kansas, Alabama, Mississippi...), del centro-sud e molto conservatori, non gli sono affatto favorevoli. Infine, quel che è peggio, più la corsa si prolunga e lui dimostra la sua inadeguatezza, più è possibile che il partito si affolli di avversari pronti a affilare i coltelli e cercare candidati alternativi. Questa è un'ipotesi di scuola forse poco probabile, ma molto gettonata tra certi commentatori assetati di sangue. E la -rara- apparizione ieri su CNN di Sarah Palin, eminenza grigia dell'ala conservatrice del partito che gode di una sua ampia sebbene travagliata popolarità, sembra dimostrarlo: "Tutto è possibile per la nomination", ha detto, lasciando intendere che se davvero il partito non si sapesse decidere lei sarebbe pronta.   
  
Delegati necessari per vincere 
la nomination: 1144

429

169

118

67