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sabato 30 giugno 2012

Letture estive

La notizia ci coglie inaspettata durante una mattinata calda e afosa che ci spinge verso Jones beach, la migliore spiaggia che New York abbia da offrirci, ad appena un'ora di macchina da Manhattan. Ultimo di una serie di divorzi di lusso che ci fanno preoccupare per i futuri sviluppi di questa calda stagione estiva appena cominciata -da Vanessa Paradis/Johnny Depp a Anne Sinclair/DSK- anche Katie Holmes si appresterebbe a lasciare il marito-divo Tom Cruise dopo cinque anni di vita coniugale. Un vero fulmine a ciel sereno. Apprendiamo i dettagli di questo inatteso avvenimento dalla quarta pagina del New York Post che spalanchiamo davanti all'oceano. Cinque anni fa Katie dagli occhi languidi sarebbe stata selezionata da una scrupolosa agenzia di pubblicità che l'avrebbe preferita a diverse altre candidate ancora più insipide per cercare di migliorare l'immagine non sufficientemente mascolina del divo Tom, all'epoca reduce dal suo secondo matrimonio fallito. Ma si sa, l'amore è bello ma ballerino, e Katie avrebbe preferito firmare un accordo prematrimoniale per garantirsi un ricordo imperituro dell'amato in caso di -improbabile- separazione. Vale a dire 3 milioni di dollari per ogni anno di matrimonio fino a un massimo di 33 milioni, più una graziosa casina a Santa Barbara.
Beverly Hills
Cosa abbia spezzato l'incantesimo tra i due innamorati dopo appena cinque anni spingendo Katie a chiedere anzitempo divorzio e regalino pattuito (5x3=15 milioni di dollari) il giornale non lo spiega. Insinua tuttavia che Katie desiderasse allontanare la figlioletta Suri, cui i genitori, assai avveduti, hanno fatto indossare i tacchi a spillo fin dall'età di tre anni per accompagnarli sui tappeti rossi di innumerevoli festival, dall'amorevole abbraccio di Scientology, di cui Tom è uno dei più prestigiosi ed rispettati esponenti. Sia come sia, è proprio triste quando una bella coppia si separa. La brezza sale lenta dall'oceano. E mi sa che mi faccio un pisolino.

Se Katie è costretta ad asserragliarsi a New York per cercare rifugio dagli sgherri di Scientology che vogliono ghermirle la figlia in fondo la colpa è tutta di Ron Hubbard, il santone autore di Dianetics, "la scienza moderna della salute mentale" (che sembra andare a ruba specie in California, dove è stata fata  la foto), e poi fondatore della setta Scientology. Fu un pazzo, bugiardo e ciarlatano come sostengono alcuni o un pioniere visionario dalla sterminata cultura come sostengono i suoi adepti? A voi l'ardua sentenza: chiedete la vostra copia di "Dianetics, la forza del pensiero sul corpo" qua (per ottenere lo sconto dell'1.1% sul prezzo di copertina scrivete "Imbucato"). Questa è davvero una lettura estiva altamente consigliabile: vi potrebbe cambiare la vita, un po' come l'ha cambiata alla nostra adorabile famigliola VIP.

mercoledì 27 giugno 2012

Il Gay Pride: quarantadue anni e non sentirli


Il Gay Pride di New York si è svolto domenica nella consueta cornice di festa popolare, in un tripudio di bandiere arcobaleno, palloncini multicolori, torsi ben torniti e drag queen coperte di paillette a sfilare lungo un percorso pressoché immutato da anni. La prima manifestazione, quarantadue anni fa, fu il prodotto della reazione spontanea a una retata da parte della polizia di chi si dava a abboccamenti "contro natura" nello Stonewall Inn, un notorio ritrovo del Village. Da allora, c'è chi non si è perso un Gay Pride, chi l'aspetta ogni anno acquattato nello stesso angolo della Quinta Strada che offre la miglior visuale e poi va a far festa con i protagonisti allo Stonewall -diventato meta di pellegrinaggio e simbolo della lotta mondiale per i diritti degli omosessuali- chi infine festeggia tra amici in uno dei mille party privati in cui si brinda a se stessi, e magari inconsapevolmente ai progressi compiuti per l'affermazione dei propri diritti. Sì perché, al di là della tradizione carnevalesca smodata e talora un po' incongrua del Gay Pride, e con buona pace di chi, come l'Imbucato, quest'anno gli ha preferito i bagni in piscina a Los Angeles, i gay americani e newyorchesi in particolare hanno di che festeggiare. Basti dire che applauditi e in prima fila quest'anno c'erano il Governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, democratico, che per i gay ha ottenuto il diritto di sposarsi esattamente un anno fa, e il sindaco della città Bloomberg, politicamente più destrorso ma troppo pragmatico e ansioso di ritagliarsi un posto nella storia per trascurare i diritti di uno dei bacini elettorali quantitativamente e qualitativamente tra i più rappresentativi della città. Sebbene non fisicamente presente, il più acclamato dalla folla è stato però il Presidente Obama, che per ragioni elettorali non dissimili si è dichiarato di recente favorevole ai matrimoni omosessuali.
Il Gay Pride ha fatto da anni molti emuli in tante parti del mondo, ma è con con lo stupore di chi manca dalla propria città da tempo che ho scoperto per caso su Internet che anche Cagliari celebra l'evento -per la prima volta- sabato prossimo. Lo fa con il non trascurabile divario temporale di quarantadue anni e una settimana rispetto a New York, ma con l'apparente intenzione di recuperare il tempo perduto con intelligente e sardonica spensieratezza. La sfilata farà da coronamento a quaranta giorni di dibattiti, eventi, film sul tema (un ciclo dal titolo evocativo di queeresima) e si snoderà lungo la spiaggia del Poetto, sacra ai cagliaritani e presumibilmente affollata di bagnanti. Il grazioso logo della pavoncella etno-civettuola decorata con i colori dell'arcobaleno omosessuale che sostenitori entusiasti dell'avvenimento si sono incaricati di portare in giro per il mondo (vedi qui) è un altro riuscito tocco glocalistico.   Della Pavoncella vi proponiamo la versione che ammicca dagli scogli  sullo sfondo del classico mare turchese isolano, con l'augurio che contribuisca ad aprire la strada ai quei diritti che l'Italia è tra gli ultimi paesi occidentali al mondo ad ostinarsi a negare. 


sabato 16 giugno 2012

Tra Cagliari e il Nebraska (e ritorni): un omaggio personale

Di  Università, in Sardegna ce ne sono due. Parecchio antiche. Lo dico a beneficio dei tanti interlocutori americani ma non solo che immaginano l'isola come un remoto paradiso tropicale popolato di yacht e che al solo apprendere la notizia spalancano tanto d'occhi. A Cagliari, la facoltà di scienze politiche, che tre generazioni della mia famiglia menano vanto di avere frequentato fino alla laurea, occupa con le altre facoltà del cosiddetto 'polo giuridico-economico' una delle zone più belle della città. Gli edifici che le ospitano, per lo più ereditati da vecchie, benemerite istituzioni pubbliche di assistenza a varie categorie di disabili e tuttora denominati in loro onore ("ex-ciechi",  "ex-sordomuti"...), costeggiano l'Orto Botanico e l'Anfiteatro romano e si arrampicano sul colle di Buoncammino, da cui si gode uno dei più bei panorami della città a picco sul mare e sugli stagni. 



Certo, quanto a prestigio o qualità dell'insegnamento l'Università degli Studi di Cagliari, Sardegna, non può competere con Columbia University in the City of New York (le cui rette sono peraltro incomparabilmente più elevate!). Tuttavia, ha saputo offrire a generazioni di studenti isolani un percorso formativo equiparabile a quello di altre Università pubbliche italiane, ponendoli in condizione di competere ad armi quasi pari malgrado il divario legato all'insularità e all'asfittico retroterra economico. Come in altre Università non solo italiane, oltre all'entusiasmo e allo slancio degli studenti il sistema si regge su uno zoccolo duro di docenti che con  impegno e abnegazione riescono a fornire un insegnamento d'eccellenza pur in presenza di mali cronici cui innumerevoli riforme incessantemente riformate hanno invano cercato di porre rimedio nel corso degli anni: la carenza di risorse, il sovraffollamento, il clientelismo, il peso asfissiante dei baronati e dei privilegi, l'assenza di sbocchi per i meritevoli... 
Quando un mesetto fa sono andato  a trovare Liliana, la mia ex-professoressa e relatrice della mia tesi di laurea in storia delle relazioni internazionali, che di quella categoria di docenti è uno dei più rappresentativi e che per quei mali non si dà pace, mi è sembrata ancora più piccolina dietro i saggi americani ammucchiati nello studio al primo piano di scienze politiche, da cui si scorge un pezzetto di golfo.  Ma animata dal consueto entusiasmo. Trafficava su Internet, alla ricerca di soluzioni di viaggio che la portassero da Cagliari a Omaha, Nebraska, nei cui pressi cinquant'anni fa, in piena Guerra Fredda, fu tra le prime studentesse sarde a frequentare un anno di liceo nell'ambito del programma di scambio American Field Service, antesignano di Intercultura in Italia. La sua High School dell'epoca festeggia la ricorrenza, e non le andava di mancare, anche se il tipo di viaggio che avrebbe preferito, attraversare l'oceano a bordo di un bastimento e poi il Midwest in bus Greyhound come fece allora, risulti oggi poco praticabile. A malincuore, si è risolta a prendere l'aereo. Ed è allora che ho capito che oltre all'interesse per la storia delle relazioni internazionali e al rigore della ricerca storica (che non ho poi perseguito), la Professoressa mi ha trasmesso anche la sua passione per gli Stati Uniti che nel mio caso dura da vent'anni (in America ci andai allora per la prima volta grazie a lei; non in bastimento ma su un decrepito Jumbo della moribonda TWA). Una ragione in più per esserle riconoscente. Grazie, e buon viaggio in Nebraska (il viaggio in Greyhound sarà per la prossima volta. Quanto al bastimento...).


Anni '60 
In assetto da guerra
La mitica Seven Seas. Fu dal ponte del piroscafo transatlantico Seven Seas che nel 1962, dopo lunghe giornate di traversata dell'Atlantico, la giovane Liliana vide profilarsi la Statua della Libertà prima di proseguire il viaggio verso il Nebraska in bus. All'epoca il Seven Seas era già reduce da altre avventure: varato come nave da trasporto alla vigilia dell'intervento americano, venne requisito dalla Marina militare allo scoppio della guerra. Equipaggiato di un ampio ponte superiore capace di accogliere 20 aerei da combattimento, partecipò fra le altre alla battaglia di Guadalcanal. Tornata al servizio civile dopo la guerra, la nave si affrancò da ponti d'atterraggio e cannoni, fu ristrutturata quel tanto che bastava e adibita al trasporto emigranti  essenzialmente alla volta dell'Australia. La stipavano in 1300, talora in partenza dal sud d'Italia.  Nel 1953, col nuovo e definitivo nome Seven Seas, fu impreziosita di accoglienti salottini nello stile dell'epoca, dotata di una prima classe e di ponti più ampi e iniziò un regolare servizio di crociera per turisti e studenti tra l'Europa e il Nordamerica. Terminata la carriera sull'Atlantico nel 1966, fu ormeggiata nel porto di Rotterdam e offrì alloggio a studenti e poi a lavoratori immigrati. Nel 1977, la Seven Seas, dopo 37 anni di onorato servizio, prese la via del Belgio per essere definitivamente demolita.
Un tetto per studenti
Accoglienti salottini

(Immagini e ricostruzione storica tratti dal sito "ssmaritime").



mercoledì 13 giugno 2012

Street art o vandalismo: Keith Haring e gli altri

Un caro lettore, a cui a suo tempo piovve addosso l'incarico di liberare le strade di Cagliari dalle scritte e i disegni che le imbrattavano, si pronuncia a favore di una distinzione tra vera espressione artistica di strada e mediocre vandalismo. Come esempio della prima categoria ci invia la foto di una delle "balene-u boot" che è facile ritrovare su molti muri della città. Opere di un ormai affermato graffitaro, le balene sono graziose, e ormai accettate cittadine onorarie, tanto più che grazie a una sorta di codice deontologico dell'autore appaiono essenzialmente in luoghi defilati bisognosi di essere abbelliti. Il nostro lettore va oltre, e sogna la creazione di un laboratorio artistico urbano attarverso il quale le autorità municipali possano riservare degli spazi alla libera espressione degli artisti di strada. Diverso trattamento, supponiamo, riserverebbe alle tags che deturpano gli spazi pubblici, spesso nelle zone di maggior pregio storico. La distinzione tra le due categorie è tuttavia a volte sottile, e l'esempio di New York, che alla street art moderna ha dato i natali, può forse orientarci.


Una mostra al Brooklyn Museum (sino all'8 luglio) dedicata agli inizi della carriera di Keith Haring, che della street art newyorchese degli anni '70/'80 è stato uno dei più noti epigoni, capita a proposito. La mostra ci accompagna lungo i primi quattro anni di attività di Haring: dal 1978 -quando giovanissimo si immerse nella palpitante vita da artista di strada della New York dell'epoca- fino al 1982, quando espose per la prima volta in una galleria, dando avvio alla sua carriera artistica in senso stretto. In quei primi anni si esprimeva con la video arte ma soprattutto con i graffiti nelle stazioni della metropolitana, di cui decorava con il gesso i pannelli neri adibiti all'affissione dei manifesti pubblicitari. Poco ci è pervenuto di quei graffiti originali: qualche foto e pochi pannelli oggi esposti alla mostra, sfuggiti agli intenti repressivi della polizia alla quale Haring cercava di sottrarsi non sempre con successo. Sappiamo però che gli elementi decorativi che usava all'epoca erano già i pupazzetti, astronavi e cagnetti in movimento che sarebbero confluiti nelle sue opere più mature. L'esempio di Haring é quello, forse non troppo comune, di un artista di strada che salì sugli altari dell'arte maggiore, - o forse semplicemente seppe da essa farsi accettare- riuscendo nel contempo a fare assurgere il proprio linguaggio visivo a riconoscibile elemento iconografico pop.

La vitalità culturale e artistica della New York ripulita e imborghesita di oggi ha poco a che vedere con quella dell'epoca, e l'arte di strada, quando esiste, assume oggi un aspetto assai poco spontaneo, con qualche probabile eccezione nei quartieri industriali di Brooklyn non ancora completamente preda del mercato immobiliare. A Manhattan alcuni murales occupano intere facciate, ma sono per lo più frutto di commesse di società di comunicazione o dell'immancabile stilista affamato di pubblicità. Quanto alle scritte vandalistiche selvagge sui muri o i mezzi di trasporto, sembra che la città abbia imparato  a difendersene meglio rispetto per esempio alle città italiane: la desolante devastazione dei vagoni della metropolitana di Roma, ad esempio, sarebbe semplicemente impensabile oggi in quella di New York. La battaglia degli anni '80 e '90 contro i graffiti che sfiguravano i vagoni ha portato a una legislazione repressiva efficace (ad esempio la detenzione e uso di bombolette di vernice è vietata ai minori di 18 anni) e un'efficiente opera di prevenzione e pulizia dei treni (maggiori controlli ai depositi; i treni coperti da graffiti sono stati sostituiti da altri coperti da una pellicola trasparente amovibile). Ma più di tutto è progressivamente scemato l'interesse da parte degli stessi taggers, che sembrano avere trovato migliore occupazione. Il futuro dei graffiti moderni visto da New York, che li ha inventati, sembra quello di una serena scomparsa o di un dolce, mellifluo addomesticamento.

A passeggio con Ivo e Julien, gli amici belgolandesi che ci hanno fatto visita di recente, per i Luoghi Sacri nel West Village che hanno visto affermarsi la lotta per l'emancipazione del movimento omosessuale abbiamo scoperto il testamento segreto di Keith Haring. Si tratta di un grande affresco, sconosciuto ai più e recentemente riscoperto grazie alla mostra del Brooklyn Museum, che Haring dipinse sulle pareti dei bagni -oggi trasformati in sala riunioni- del Gay Community Center del West Village. Gli abituali omini di Haring qua si intrecciano, si baciano, si penetrano, cavalcano enormi organi sessuali stilizzati in un'apoteosi erotica che sembra un inno a quel vitalismo sfrenato, anche e forse soprattutto sessuale, da cui Haring si fece catturare a New York, da cui trasse la sua ispirazione e che continuò a celebrare sino alla fine. La data in basso, poco sopra le piastrelle bianche, indica che Keith Haring terminò la sua opera nel maggio del 1989. Morì di AIDS nove mesi dopo,  il 16 febbraio 1990 a 32 anni. 

martedì 12 giugno 2012

Come curare il mal di gola in America

Il mal di gola mi attanaglia da qualche giorno, e siccome è un problema nel mio caso ricorrente so già che per quel tipo di infiammazione ci vuole un antibiotico e quindi un medico che lo prescriva. "A questo servono i medici: a fare le ricette", avrebbe sentenziato mia madre farmacista. In casi simili a Bruxelles il mio medico curante, che sembra appena sgusciato fuori da un fumetto di Tin Tin, mi avrebbe sommariamente visitato per la cifra di 35 euro. Avrei poi acquistato l'antibiotico alla piccola farmacia dell'angolo, accogliente e un po' spoglia, al prezzo di forse 20 euro, dove un farmacista annoiato l'avrebbe estratto da un cassetto e annotato diligentemente sulla scatola le dosi prescritte dal medico. Avrebbe corredato il tutto con qualche consiglio spiccio per dimostrare che non era un semplice commesso, e io riconoscente avrei aggiunto alla spesa un qualche inutile shampoo anticaduta, quello sì carissimo ma garantito dalla ricerca farmaceutica. Un sorriso e buonasera, dieci minuti e una spesa quasi modica, che in Italia sarebbe pari a zero.

Per dire addio al mal di gola anche a New York, ho dovuto risolvermi ad andare dal nostro medico di fiducia, una brasiliana trapiantata in America. Dopo una breve sosta in una sala d'attesa invasa da un getto d'aria condizionata gelida, sicura condanna per i pazienti anziani e di salute più cagionevole, sono stato ammesso dal medico di fiducia, che ha impiegato un minuto del suo tempo per dare uno sguardo alla mia gola, e venti per prodursi in molte affabili discussioni in molteplici lingue sulla Sardegna, il Brasile, e la superiorità  della civiltà latina. Infine, ha stampato l'agognata ricetta e mi ha accompagnato alla cassa, dove mi sono stati chiesti 200 dollari (160 euro) per la cosiddetta visita.
Prossima tappa: acquistare l'antibiotico. Le rassicuranti farmacie indipendenti all'europea a New York sono pressoché estinte, fagocitate da un duopolio intento ad estendere sul territorio la propria rete di grandi supermercati di quartiere a basso costo e aspetto desolato che dispongono di un angolo per la vendita di farmaci su ricetta. Il motto di Duane Reade, una catena nata downtown e che delle due mi sembra la più radicata, spiega tutto: "Tutte le medicine di cui hai bisogno, dall'aspirina alla zuppa di pollo". Con una netta prevalenza della seconda: per raggiungere i farmacisti,  protetti da un bancone di formica e vetro sbeccato nell'angolo più angusto e fiocamente illuminato del supermercato, devi attraversare reparti interi di patatine e beveroni gassati da tre litri, zuppe preconfezionate, assorbenti in offerta. E l'aria depressa e vagamente aggressiva dei farmacisti nonché la loro provenienza invariabilmente latina o afro-americana la dicono lunga sul prestigio di cui gode la professione nel paese. Come operai alla catena di montaggio, alcuni prendono nota delle prescrizioni mediche, altri si aggirano nel retrobottega come formichine per prepararle e infilarle in appositi sacchetti di carta. I clienti, per lo più male in arnese nonostante la predominanza alto-borghese del quartiere, sono apaticamente rassegnati a fare la fila più volte, e aspettano minimo un'ora per la consegna, anche in caso di prodotti preconfezionati.  In compenso, il prezzo è alto: nel mio caso 50 dollari per 6 capsule di un banale antibiotico. In America un mal di gola costa 250 dollari e parecchia pazienza; per le altre patologie in fatto di costi temiamo il peggio, ma speriamo vivamente di non doverne parlare in un altro post.
Italian Pharmacy
New York Pharmacy

giovedì 7 giugno 2012

Il mio ufficio all'Università: Pauline e il Deserto dei tartari

Il severo edificio neogotico
L'autobus M5
L'insalata di Saranno Famosi"
Presso la Prestigiosa Università dell'Upper West Side mi è stato assegnato un ufficio -che divido all'occorrenza con vari ricercatori e assistenti ai quali mi accomuna la precarietà contrattuale- in un severo edificio neogotico a nord del campus principale, a poca distanza dal Riverside Park. L'autobus M5, che costeggia il parco in tutta la sua lunghezza e ha una fermata a dieci metri da casa mia, è la mia navetta per l'ufficio: sempre vuoto e probabilmente sconosciuto ai più, pratico, rapidissimo e dal percorso incantevole lungo il fiume, è da preferire alla metropolitana, anche se ha l'inconveniente di passare quando gli capita. Stamattina il sole splendeva e l'attesa è stata breve. In ufficio ho sbrigato qualche rapida incombenza logistica con l'aiuto della nostra segretaria Pauline, una giovane afroamericana gioiosamente sovrappeso cui non fanno difetto efficienza e disponibilità a patto di non opporre resistenza alle sue stravaganti teorie di difesa della razza (nera, si deve supporre), secondo le quali l'etnia o la nazionalità di appartenenza di qualunque suo interlocutore è invariabilmente spregevole. Ad ogni mio apparire fa mostra di disprezzare gli italiani o, se particolarmente ispirata, gli europei tout court. Si deve, mi ripeto mentre le sorrido fintamente divertito, intendere il contrario di quel che dice. E quindi supporre che mi ami visceralmente. Per rassicurarmi mi dico anche che non deve essere facile per un'assistente amministrativa mantenere un normale equilibrio psicofisico in questo ambiente universitario nervosamente popolato per parte dell'anno da capricciosi accademici sovraccarichi di prestigio, che poi scompaiono durante la pausa estiva, stiracchiata da maggio a agosto compresi, lasciandosi alle spalle un Deserto dei Tartari di corridoi deserti, porte sbarrate, bacheche vuote, aria condizionata glaciale pompata inutilmente. In attesa del prossimo semestre in settembre. "Fanno ricerca da casa", mi dice Pauline che rimasta sola ad ammirare il Deserto mostra così il suo vero volto: una grande, disarmante bontà d'animo. La saluto: al Deserto dei Tartari oggi preferisco una bella insalata da portar via acquistata alla mensa della Manhattan School of Music di fronte, che fa tanto Saranno Famosi. Me la mangio nel Riverside Park, con vista sull'Hudson e sul Mausoleo di Ulysses Grant.

Ulysses Grant e il mio parco preferito
Illustri sconosciuti e appartamenti di pregio lungo il Riverside Park
Il Memoriale a Ulysses Grant

L'amabile fanciullo
Il generale Grant
Il Riverside Park è uno dei più belli e meno noti tra i parchi storici di New York pressoché coevi di Central Park. Si estende per più di 4 miglia lungo l'estremità nord-occidentale di Manhattan, dal Lincoln Center fino a Harlem, e offre alla consueta clientela di joggers, balie con bambini e passeggiatori canini uno scenografico terrapieno a picco sull'Hudson, punteggiato in tutta la sua lunghezza di monumenti a glorie nazionali e estere. Tra queste, spiccano Eleanor Roosevelt, Giovanna d'Arco e il patriota ungherese Kossuth;  a pochi passi da casa, sull'87ma,  una grande spianata con edicola in marmo e cannoni d'ordinanza rendono omaggio al milite (e marinaio) ignoto. Vicino all'ufficio, sulla 121ma, la colossale Riverside Church, costruita negli anni trenta a immagine della cattedrale di Chartres, è una delle principali attrattive turistiche; mi dicono vi si pratichi un culto cristiano interconfessionale la cui anima predominante è nera e l'impronta fortemente progressista. Quassù siamo alle porte di Harlem, e la zona è solcata a intervalli regolari dai pullman scoperti a due piani che ne propongono la scoperta a turisti che hanno ormai poche ragioni per ritenersi impavidi: gli appartamenti che si affacciano sul fiume in questa zona, ancora trent'anni fa poco raccomandabile, sono tra i più cari di New York, e anche la parte occidentale di Harlem, poco più a nord, si è ormai in gran parte imborghesita. La principale attrattiva turistica rimane comunque il mausoleo in marmo bianco dedicato al culto laico di un Padre della Patria, il generale unionista e diciottesimo Presidente degli Stati Uniti Ulysses Grant. All'interno, sotto la cupola bianca, il sarcofago dell'ex-presidente; poco lontano, un museo in miniatura, nascosto sotto un grazioso porticato in marmo che guarda l'Hudson, ne ripercorre la vita. A scorrerla rapidamente mi sembra di capire che Grant si fosse fatto soldato in mancanza di meglio e, congedato una prima volta senza gloria, si fosse attaccato alla bottiglia prima di riuscire a farsi richiamare allo scoppio della Guerra Civile. Asceso rapidamente al comando supremo dell'esercito grazie a vittorie coraggiose ma talora non scevre da critiche per il numero di vittime riportate, seppe offrire alla parte avversa una pace generosa. Venne eletto Presidente a furor di popolo qualche anno dopo, incarnando le speranze di coloro che gli attribuivano la capacità di pacificare un paese ancora profondamente diviso. Rispose alle attese promuovendo gli interessi industriali del paese, e estendendo il suffragio agli afroamericani. Sostenne la corsa verso l'ovest a spese delle tribù indiane, chiuse in riserve con lo scopo pubblicamente avallato da Grant di fare degli indigeni dei cittadini americani a tutti gli effetti. Morì ancora in stato di grazia con la Nazione, e il mausoleo non si fece attendere: fu completato nel 1897 a 12 anni dalla sua morte. Fu costruito a pochi metri dalla tomba dell''"amabile fanciullo", morto nel 1797 ad appena cinque anni e di cui ancora oggi si può ammirare l'urna dedicatagli dagli inconsolabili genitori. Come sottolinea puntuale un pannello, quell'umile tributo a un bambino che non divenne mai adulto rappresenta uno strano contrasto con il grandioso omaggio ai successi di uno dei Padri della Nazione. 
La colossale Riverside Church
L'Hudson dal museo in miniatura