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mercoledì 28 marzo 2012

New York, il Jazz e il Village Vanguard


New York coltiva con crescenti difficoltà la sua reputazione di Capitale mondiale del Jazz. I musicisti continuano a bazzicarla, ma il pubblico diminuisce, le tournées si assottigliano, alcuni locali storici hanno chiuso i battenti e quelli che restano vivono una crisi latente. Non è un mistero che molti di essi sopravvivano grazie al contributo dei turisti giapponesi, che per amore del jazz o del mito della New York degli anni '20 continuano a frequentarli con costanza e in gran numero. Il Village Vanguard, che dei locali jazz di New York è uno dei più prestigiosi decani, non sembra sfuggire alla regola. Se la scontrosa supponenza con cui si viene accolti e il fastidioso decalogo di regole di comportamento da seguire sono forse studiati per coltivare il mito, probabilmente non si può dire altrettanto dei tavolini in formica scrostata, del tanfo di umido che coglie all'ingresso, delle condizioni pietose in cui versano le toilettes. Ma che si tratti di una politica deliberata o delle conseguenze della crisi, quel che è certo è che il Vanguard è riuscito nell'impresa di rimanere quello che è sempre stato dalla sua fondazione nel 1935 da parte di Max Gordon: una cantina triangolare umida in pieno Greenwich Village, ingombra di tavolini e coperta di velluti rossi dove si ascolta dell'ottima musica e, dagli anni 50, unicamente del jazz. Sonny Rollins, Bill Evans e John Coltrane non solo vi suonavano regolarmente, ma vi hanno registrato alcuni dei loro dischi, e lo stesso hanno fatto Dexter Gordon, Wynton Marsalis, Brad Mehldau e tanti altri, che hanno lasciati i segni del loro passaggio nei poster affissi alle pareti. Si calcola che al Vanguard sono stati registrati più di cento album di musica jazz dall'apertura a oggi. 

Non è forse al livello di Sonny Rollins, ma Enrico Pieranunzi, che si è esibito ieri sera al Vanguard con il suo trio, è uno dei più grandi jazzisti italiani viventi, e ci ha regalato degli splendidi momenti di buona musica, per lo più tratta dal suo ultimo Permutation, melodico, gradevole e di grande atmosfera. Ci accompagnava una nostra cara amica, musicista prestata alle politiche comunitarie che ci fa visita in questi giorni, qui sopra ritratta mentre sorseggia uno scadente Calvados nella quiete ovattata del Vanguard dopo lo spettacolo. Accanto a noi, tre businessmen nipponici hanno seguito lo spettacolo con professionale attenzione svuotando una o più bottiglie di champagne Piper. Sperando che i giapponesi non si stanchino di frequentarlo, auguriamo lunga vita al Vanguard. 
Smoke, il Jazz Bar dell'Imbucato

Pagato il doveroso tributo alla leggenda, consentiteci di esprimere la nostra personale preferenza tra i locali jazz visitati finora. Si chiama Smoke e si trova sulla Broadway a pochi isolati da casa, dove l'Upper West Side sconfina in Harlem. È carino è accogliente, rifatto di fresco e foderato degli inevitabili velluti rossi. A pensarci bene, assomiglia talmente da vicino a quello che un turista europeo mediamente imbevuto di iconografia cinematografica americana si immagina debba essere un locale jazz newyorchese da far dubitare della sua autenticità. Sappiamo anche per certo che non ci ha suonato John Coltrane, anche se può vantare un pezzettino di leggenda per aver ispirato l'omonimo film di Paul Auster, abituale frequentatore del locale nella sua precedente versione. Ma i suoi principali punti di forza sono tre, e non secondari: non si paga l'ingresso in settimana, si mangia piuttosto bene (in particolare un delizioso pesce gatto), e chi lo gestisce è accogliente e sorride con piacere. Tutte caratteristiche che lo distinguono dalla media dei locali più paludati. Ah sì, e quelli che ci suonano e cantano ce la mettono tutta e fanno spesso un ottimo lavoro. Quanto basta all''Imbucato per tornarci sempre con piacere. 

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