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sabato 1 settembre 2012

Dal Vostro Imbucato alla Convention repubblicana


Non credete all'Imbucato!





Tampa non deve mancare di estimatori: non ultimi i turisti congressuali, i crocieristi di passaggio e i pensionati del Settentrione americano che hanno trovato qua il loro buen retiro. Per quanto mi riguarda, dopo averne tentato la scoperta, ho deciso che preferisco osservarla dalla vetrata dell'appartamento che ci ha affittato un manager di nostra conoscenza; c'è tutto quel che può desiderare un dinamico uomo di mezz'età come il sottoscritto: gli estenuanti mobili di design minimalista italiano, l'isola cucina col piano in marmo, la macchina Nespresso cromata, gli schermi piatti, l'enorme specchio accanto al letto, le riviste maschili su come rimpolpare i bicipiti. E poi, da qui si domina la skyline della città (i cui grattacieli, costruiti durante il boom immobiliare degli anni '80 e dall'aspetto precocemente incongruo,  fanno miglior figura da lontano), e il colossale Palazzo dello Sport che ospita la Convention. È ai nostri piedi che inizia la zona di sicurezza vietata alla circolazione e ai non addetti, che ha fatto di downtown una gigantesca terra di nessuno protetta da blocchi di cemento armato, pattugliata notte e giorno da squadriglie a piedi e a cavallo di poliziotti locali che indossano poco rassicuranti uniformi da miliziani. La città, in stato d'assedio, è spettrale, e non sembra entusiasta della Convention malgrado i cartelli di benvenuto onnipresenti: chi ha un esercizio in centro ha dovuto chiudere bottega per una settimana senza compensazione. Ai margini della zona vietata sparuti gruppi di attivisti brandiscono cartelli disparati, ma riconducibili essenzialmente a gruppi oltranzisti religiosi ferocemente antiabortisti e omofobi: ci invitano a gola spiegata a scegliere Gesù e non Obama. Con l’avvicinarsi dell’ora serale d’inizio della kermesse, il brulicare intorno alle porte girevoli dei grandi hotel del centro si fa più intenso. I partecipanti più in vista, con indosso grisaglie costose ma troppo abbondanti e corte di pantalone come vuole l’uso americano, si espongono al caldo umido per qualche secondo: si aggiustano al collo i badge esclusivi e si tuffano nelle limousine. Le truppe d’appoggio del partito, arrivate da ogni angolo d’America per fare colore e riempire gli spalti, hanno lasciato gli oscuri motel loro assegnati e convergono da più di un’ora verso il Palazzo dello Sport a bordo di interminabili colonne di pullman. Anche l’Imbucato ha lasciato il suo pied-à-terre da scapolo per dirigersi verso la Convention: ha rimediato un vero pass da giornalista, che gli apre le porte del settore 326, sesto e ultimo livello dietro il palco, vista a picco sulle formichine che vi si avvicendano.




Oggi è la giornata finale, e in attesa del discorso in cui Mitt Romney, come da tradizione, accetterà la candidatura a Presidente degli Stati Uniti, gli organizzatori hanno deciso di farci meglio conoscere la sua vita carica di successi ma non poco soporifera. Ci scopriamo a rimpiangere il discorso teso e ispirato di ieri di Condoleezza Rice, con cui dicono abbia messo un’ipoteca su future corse alla Casa Bianca, o quello abile e applauditissimo ma inevitabilmente più opportunistico e fazioso del Candidato alla Vice Presidenza Paul Ryan. Oggi ci tocca ascoltare pastori mormoni, contabili, manager, sportivi incolti, vicini di casa e un giovane Romney (il figlio Bisteccone più giovane e fotogenico) che sfilano sul palco per raccontarci episodi di vita vissuta accanto al futuro Candidato o per esaltarne il ruolo edificante nel contesto di vicende strappalacrime e vite dolorose di cui abbiamo rapidamente dimenticato i dettagli. Mentre la folla applaude cortesemente e fa finta di commuoversi, accanto a me i cronisti semiaddormentati risparmiano le tastiere dei computer. 

Romney, palloncini e bistecconi
E infine Romney: dopo aver fatto irruzione nella sala al suono assordante dell’energica ballata country che predilige, insiste anche lui con qualche successo nel tentativo di dare di sé l’immagine di un uomo dotato di un cuore, capace di provare compassione per la categoria della gente comune a cui non è mai appartenuto. Poi, con accenti quasi accorati e con certo minore arroganza rispetto al suo Vicepresidente si rammarica quasi del fallimento della Presidenza Obama in cui molti Americani hanno creduto, per presentarsi come colui che dando sfogo allle forze vive dello spirito imprenditoriale americano saprà liberare il paese dall’onnipresenza dello Stato per ripristinarne la crescita economica e il pieno impiego. Sebbene la sua arte oratoria rimanga poco più che mediocre, Romney appare più sereno e meno legnoso rispetto all’inizio della campagna, sollevato forse di essere almeno riuscito laddove il padre, il carismatico governatore del Michigan negli anni 60, aveva fallito: farsi candidare alla Presidenza. Quanto a diventare Presidente, bisognerà convincere la maggioranza degli Americani. E mentre migliaia di palloncini tricolori invadono la sala, il pubblico repubblicano presente applaude e sembra già convinto: non è poco, per un Candidato che durante le primarie non è mai riuscito a farsi amare. Sul palco, Mitt sorride mentre decine di figli, cognate e nipotini inseguono i palloncini colorati.

Quasi più che l’uragano, a creare scompiglio nell’oliata macchina della Convention è stata la comparsata da parte del divo Eastwood. Quando i grandi network si sono sintonizzati in diretta,  il grazioso documentario promozionale sulla famiglia di Mitt era appena sfumato, e gli Americani si sono trovati di fronte nonno Clint. In stato confusionale, biascicava frasi non intellegibili rivolto ad una sedia vuota su cui sosteneva fosse seduto il Presidente degli Stati Uniti, cui prestava battute gratuitamente triviali e non proprio esilaranti. La sua  lunga e slabbrata esibizione a braccio, che ha prodotto migliaia di reazioni sarcastiche a catena via Internet e fiumi di inchiostro il giorno dopo, ha reso discutibile servizio a Mitt, di cui ha finito per oscurare nell'attenzione pubblica il discorso. Chi ne ha voluto la partecipazione annunciandola all'ultimo istante come un colpo da maestro fa buon viso, anche se si sa che Eastwood, tra i pochi grandi di Hollywood a professarsi pubblicamente repubblicano, non è uomo prevedibile: sindaco indipendente per alcuni anni della cittadina di Carmel in California, ha appoggiato molti candidati repubblicani ma si è sempre proclamato liberale sui temi sociali. Quest’anno la sua partecipazione a uno spot per la Chrysler, salvata dal fallimento grazie alle politiche federali, ha fatto pensare a molti che intendesse dare la chance di un secondo mandato a Obama. Il suo attacco scomposto nei confronti del Presidente voleva forse ricordare la sua indipendenza di giudizio a chi gli aveva attribuito intenzioni non sue. Ci ha invece ricordato che il tempo passa per tutti, e che non di rado offusca il pensiero: anche al Mitico Clint. Come del resto alcuni dei suoi più recenti film già mi avevano portato a pensare. 

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